Il Post, 12 novembre 2024
«Esco, serve niente?»
Per me ogni nuova giornata deve avere una specie di inaugurazione. Un suo inizio ufficiale. È quando, dopo avere dato un’occhiata alle notizie, quasi sempre pessime, sullo stato del mondo, avere dato da mangiare ai cani e al gatto, data un’occhiata al meteo, scambiato qualche parola con mia moglie a proposito dello stato, pessimo, del mondo, provveduto alla mia manutenzione personale (più laboriosa mano a mano che gli anni passano), finalmente esco di casa, in genere con il pretesto, ottimo, di “dover comprare qualcosa” – altrimenti la vita domestica potrebbe risultare gravemente compromessa.
Ovviamente non c’è alcuna vera urgenza di venti bulloni del 10 o di due teste d’aglio, di olive ascolane surgelate o di due confezioni di pile stilo (anche una di ministilo). Potrei andare a comperarli anche domani o dopo, non cambierebbe nulla. Ma la simulazione rituale è che io debba uscire, anche nei giorni nei quali l’accumulo di lavoro suggerirebbe di rimanere in casa e mettermi di buon’ora al computer (sono in ritardo con tutto!). Che io debba fare ciò che in realtà voglio fare: respirare l’aria del paese – della città quando sono in città –, andare al bar, salutare chi conosco e osservare gli sconosciuti, confondermi nel mondo trovandolo, ogni volta, meno pessimo di come sembrerebbe dalle news, insomma perdere gradevolmente un poco di tempo.
Poi finisce che mi metto al computer tardi, a volte dopo pranzo, e maledico l’ora, o il paio d’ore, spese a far niente, o meglio a sacrificare le cose che urgono sull’altare di quelle che non urgono.
Un tempo c’erano giustificazioni incontrovertibili per uscire di casa – a parte l’ovvia scansione di chi andava, e ancora va, al suo posto di lavoro. Anche chi il lavoro (come ormai è condizione abbastanza diffusa) ce lo ha in casa, se lo porta addosso, in genere usciva per comperare i giornali. L’edicola, insieme al bar, era il primo vero richiamo del mondo, ogni mattina. Parliamo di secoli trascorsi, ma insomma, ci siamo passati dentro.
Oggi le notizie le trovo, al risveglio, accanto al letto, su uno degli aggeggi portatili che ormai sono parte stabile di ciò che chiamiamo “io”, e dunque anche quel piacevole obbligo – devo andare a prendere il giornale, o i giornali – è dismesso. I bulloni del 10, è evidente, non sono altrettanto cogenti, come richiamo. E dunque spesso rimugino su quanto leggera, forse vacua, sia la mia pretesa di uscire ogni mattina. Un poco mi sento in colpa. A volte penso che, nel cumulo di ore spese, lungo la vita, a cazzeggiare in giro per la strada, avrei potuto scrivere l’Iliade, ammesso di avere un talento omerico.
Beh, sapendo di farmi un regalo, mia moglie – che di mattina comincia a lavorare molto prima di me, non so come diavolo faccia; in compenso finisce molto prima, e ho l’impressione che ci sia un nesso tra le due cose – mi ha segnalato qualcosa che non conoscevo. Un breve testo di Kurt Vonnegut che sembra scritto apposta per farmi sentire meglio quando vado a comperare, senza averne particolare bisogno, un branzino, un imbuto o una torta sbrisolona. Il testo è tratto da una lunga intervista televisiva di Vonnegut, concessa nel 2005 a David Brancaccio del network PBS. Essendo una trascrizione circola in rete in varie versioni, comunque molto simili l’una all’altra. Ho scelto la più breve. La traduzione è mia, abbiate pazienza.
«Ho detto a mia moglie che andavo a comperare una busta. E lei mi ha detto: ‘Non sei un indigente. Perché non ne compri cento tutte in una volta? Te le ordino on line e le metti in un cassetto’. Ho fatto finta di non sentirla e sono uscito a comperare la mia busta perché ci sono un sacco di cose divertenti nel processo: andare a comperare una busta. Sono andato all’edicola dall’altra parte della strada dove vendono riviste, biglietti della lotteria, dolciumi e roba di cartoleria. Sono segretamente innamorato della cassiera. Mi sono messo in coda davanti alla cassa e ho incontrato un sacco di gente. Ho visto parecchie ragazze notevoli. Ho salutato un camion dei pompieri che mi è passato accanto. Ho chiesto a una ragazza di che razza era il suo cane. E non ricordo cos’altro. La morale della storia è che siamo venuti al mondo per andarcene in giro. E i computer ci evitano di farlo. Quello che la gente che sta al computer non capisce, oppure non gliene importa niente, è che siamo animali danzanti. Ci piace muoverci. E adesso è come se fosse previsto che abbiamo smesso di danzare, e non lo faremo mai più. Suvvia, alzatevi, datevi una mossa, fate un giro intorno a casa vostra. O perlomeno: danzate».
Devo dirvelo: mi sono venute quasi le lacrime agli occhi per il sollievo, scoprendo che, quando cazzeggio sotto i portici con le fioriste, o bevo un caffè di troppo per tenere compagnia a un amico, o entro dal ferramenta (i ferramenta sono i negozi più belli del mondo) senza avere bisogno di niente di particolare, è perché siamo “animali danzanti”. Poi Vonnegut, forse ve l’ho già detto, è il mio scrittore “del cuore”, ho una sua foto bellissima proprio davanti alla scrivania, un po’ come i poster nelle camerette dei teen-ager. Lo saluto spesso, direi quasi ogni giorno. È morto nel 2007, due anni dopo quell’intervista, e spero che abbia fatto in tempo, nei due anni residui, ad attraversare la strada parecchie volte, senza farsi investire dal camion dei pompieri, e comperare buste: una alla volta.
Nell’ipotesi che non l’abbiate ancora fatto, vi suggerisco di leggere i suoi libri. A parte il romanzo considerato il suo capolavoro, Mattatoio n.5, sul bombardamento di Dresda, uno dei libri più precisi, struggenti, antiretorici mai scritti sulla guerra, vi suggerisco, tra i tanti, Comica finale e Il grande tiratore. Parlano della disumanità dell’America con un’umanità infinita, comica e commovente. Trump non ha mai letto niente, ma se anche avesse letto qualcosa, sicuramente non avrebbe mai letto Vonnegut. (…)