Corriere della Sera, 14 novembre 2024
La Cop29 è un fallimento?
Uno stadio olimpico con troppe sedie vuote. I pochi leader occidentali sbarcati in Azerbaigian, stretto a nord dalla Russia e a sud dall’Iran, si fermano il tempo di leggere il discorso, stringere qualche mano, magari in vista di nuovi accordi sul gas, e fuggire altrove. Ieri, primo «forfeit» diplomatico: dopo il presidente Macron, anche la ministra francese per la Transizione ecologica, Agnès Pannier-Runacher, ha annunciato che non andrà alla Cop29 per gli attacchi «inaccettabili» del presidente azero «contro la Francia e l’Europa». Poche ore prima, Ilham Aliyev aveva accusato il «regime del presidente Macron» di compiere «crimini» nei territori d’oltremare della Nuova Caledonia.
Il leader azero, noto per l’illiberalità del suo governo, continua dunque a punzecchiare l’Occidente, dopo aver accusato gli Usa di essere un «petro-Stato» peggiore del suo e aver urlato ai quattro venti, aprendo la Conferenza, che i combustibili fossili sono «un dono di Dio». Solo i talebani, banditi dalla comunità internazionale ma suoi ospiti personali alla Cop, sembrano essergli davvero riconoscenti.
Il clima è molto «fossil fuel friendly» a Baku, persino più che lo scorso anno a Dubai. E mentre la (seguitissima) newsletter Climate Home News, inserisce Giorgia Meloni nel gruppo dei «gas fan», cattive notizie arrivano anche dall’America Latina. Il «negazionista» Javier Milei ha ritirato a sorpresa, e senza alcuna spiegazione, la delegazione argentina alla Cop, forse per compiacere il futuro presidente Usa Donald Trump pronto a «stracciare» gli accordi di Parigi. E il Brasile, che pure ieri ha annunciato un piano di riduzione delle emissioni, grazie anche al potere «assorbente» delle sue foreste, è sotto accusa perché entro il 2035 prevede di aumentare la produzione di petrolio e gas del 36%. Un pessimo biglietto da visita per il Paese che ospiterà la Cop30 nel 2025. Ma già si parla della numero 31: Recep Tayyip Erdogan ha candidato la Turchia.
E i negoziati? Dalle porte chiuse, filtrano parole di sconforto sul tema chiave di quest’anno: i soldi. «Un disastro», sussurra sconsolato uno sherpa al «faro» dei giornalisti climatici, Ed King, descrivendo l’ultima bozza di testo sulla finanza climatica. La Cina e il G77 rivendicano 1,3 trilioni di dollari per i Paesi in via di sviluppo. I 48 Paesi meno sviluppati ne vogliono 290 solo per loro, le piccole isole 39, il Gruppo Arabo almeno 441. E le nazioni più ricche – quelle che a parole si dicono pronte a pagare il conto – vogliono ampliare la base dei donatori a Cina e Arabia Saudita prima di parlare del quantum. Il tempo stringe, settimana prossima i ministri devono chiudere.
Alla fine, sorridono solo i 377 ben remunerati rappresentanti delle società di consulenza. Spicca Boston Consulting, con 40 delegati e un rapporto di lunga data con la compagnia petrolifera azera, Socar. Non sfigura, però, neppure il Tony Blair Institute (17 delegati): l’ex premier britannico è da tempo un lobbista dell’amato gas di Aliyev.