Libero, 13 novembre 2024
Alla Cop29 sul clima di Baku non c’è nessuno
Chissà come ha reagito Greta Thunberg, ieri mattina, quando Ilham Aliev, cioè il presidente dell’Azerbaigian, cioè il Paese che ospita la Cop29, aprendo i lavori della conferenza mondiale sul clima, ha tenuto a precisare che il petrolio è un «dono di dio». Baffi grigi, cravatta nera e spilletta dell’evento sul bavero della giacca, il numero uno azero ha sparato (a zero) sulla crisi energetica. Solo che l’ha fatto a modo suo: «Che sia eolico, solare, oro, argento, rame o petrolio e gas, si tratta di una risorsa naturale e i Paesi non dovrebbero essere incolpati di averle e di fornirle ai mercati perché i mercati ne hanno bisogno». Non proprio il discorso introduttivo che ci si aspettava per scaldare gli animi di verdi e ambientalisti, di ecologisti e fanatici del green, forse nemmeno quello di chi, in buona fede, si sta accorgendo solo ora che, d’accordo, tenere il mondo lindo è un dovere sacrosanto, però, alla fine, come si fa?
Ecco, la domanda è lecita. Come si fa? Perché se si fa al modo di quella baracconata che sta andando in scena nella Baku di Aliev, viene il dubbio che di risultati se ne vedranno pochini. Ma in compenso, di strafalcioni, parecchi. Pure di accuse strampalate, giravolte dal sapore politico, ideologie travestite da propaganda (e viceversa), proteste piccate a senso unico, sfondoni, svarioni e spropositi che con la scienza e la serietà che il tema richiederebbe c’entrano niente. Fumo negli occhi, insomma: e non per colpa dello smog. Per via, semmai, di quella nuova religione (benedetta addirittura da papa Bergoglio nell’angelus di domenica scorsa) dell’ambientalismo a ogni costo.
Per esempio gli eco-talebani. Ma non nel senso degli attivisti più intransigenti, gli estremisti, gli invasati, i guerriglieri del no-fossile che qui, da noi, imbrattano i quadri di Van Gogh o bloccano le autostrade anche quando passano le ambulanze: no. Proprio dei talebani di Kabul, però in versione “eco”: gli organizzatori della Cop29 li hanno cercati, li hanno corteggiati, li hanno invitati (seppure non è stato facile visto che l’emirato islamico dell’Afganistan non è riconosciuto dalla comunità internazionale per quella cosuccia dei diritti civili negati alle donne che, ovvio, scompare di fronte al richiamo della raccolta differenziata) e una loro delegazione è riuscita a presenziare al tavolo delle discussioni planetarie sul surriscaldamento globale. Anche perché quella prigione a cielo aperto che va da Kandahar a Herat è la sesta in assoluto tra le regioni più esposte ai fenomeni estremi: poi, certo, di sprecare una parola per le sorelle afgane che non possono andare a scuola o a fare la spesa o uscire di casa senza il consenso di un uomo oppure che vengono lapidate e schiavizzate ce ne occupiamo al prossimo meeting internazionale. Mica è urgente.
È molto più improrogabile usare il grimaldello del clima per colpire Israele: e infatti, a questo, ci pensa il presidente turco Recep Tayyip Erdogan che riesce, lui sì, davvero, in un capolavoro di paradossalità surreale che, in confronto, leggere tutto Proust all’incontrario potrebbe essere considerato un esercizio sensato di concentrazione. «Crediamo», dice Erdogan quando è il suo turno, «che i responsabili del grave disastro umanitario e ambientale a Gaza debbano essere ritenuti responsabili dinnanzi a un tribunale internazionale. Israele continua a creare enorme distruzione. Le sostanze chimiche fuoriuscite nel suolo e nel sottosuolo (nella Striscia, par di capire, ndr) hanno già avuto un impatto sul futuro dei bambini di Gaza». L’antifona è chiara: Gerusalemme, per difendersi dagli attacchi di Hamas, inquina. I razzi della Jihad islamica, i missili degli ayatollah iraniani, le bombe di Hezbollah, invece, no: sono riciclabili, eco-sostenibili. La colpa è, ancora una volta, del sionismo.
Al punto che lo stesso segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, immancabile alla conferenza come il cacio sui maccheroni, a sua volta, ammicca: «La catastrofe climatica», sbotta, «sta martellando la salute, ampliando le disuguaglianze e scuotendo le fondamenta della pace».
Chi voglia capire capisca; tutti gli altri si possono rifare allo sproloquio – uno dei tanti, qui a Baku – del presidente bielorusso Alexander Lukashenko (una bella sfilata di personcine ponderate, quella che ieri ha invaso Baku): «I responsabili dei cambiamenti climatici sono assenti», specifica Lukashenko. Tana, nello specifico, per il presidente francese Emmanuel Macron, il presidente americano Joe Biden, il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il presidente brasiliano Lula da Silva. Con la sola esclusione di Lula, tutti gli altri sono nel calderone del fronte a sostegno dell’Ucraina: Vladimir Putin non viene nemmeno nominato, ma c’è da immaginarsi che i tank T-72 russi nel Donbas avanzino con la stessa energia pulita dei miliziani palestinesi a sud del Negev.
(Manca anche il presidente cinese Xi Jinping, che però invia Xuexiang Ding, ossia il suo vice, in rappresentanza: lungi da Lukashenko inserire Xi Jinping nella lista dei “colpevoli”, però è un altro segnale. Hai voglia a ripulire le sorti del mondo con le dichiarazioni, per carità bellissime e nobilissime di Emmerson Mnangagwa, il presidente dello Zimbabwe, secondo il quale il suo Paese è «fermo nell’impegno della lotta al cambiamento climatico», se ad Harare ci sono due milioni di abitanti e a Pechino dieci volte tanti).