La Stampa, 13 novembre 2024
Biografia di Gigi Marzullo
Si faccia una domanda e si dia una risposta. Ce lo siamo detti tutti, almeno una volta, per gioco, per scherzo, a volte anche per lavoro. Gigi Marzullo, che è un volto della Rai e della tv che conoscono anche quelli che non guardano la tv, quella frase la dice tutte le notti ai suoi ospiti, alla fine di Sottovoce, il suo programma che festeggia trent’anni di messa in onda in questi giorni. E non cambia mai: stessa sigla in apertura e chiusura, stessa scenografia, stesso format. Interviste in punta di piedi, un po’ filosofiche e un po’ amicali, un po’ sensuali e un po’ familiari. Tutti i programmi di questo eccentrico signore coi capelli lisci e lunghi e la camicia sempre a righe, che è in pensione da 4 anni ma non smette di lavorare, non cambiano formula ma solo ospiti. E vanno in onda dopo la mezzanotte.
Accetta di dare un’intervista a La Stampa con la ritrosia degli intervistatori. Vuole le domande scritte. Sono 35. Quando le riceve, dice: va bene, rispondo a voce. Richiama, legge le domande e dà le risposte.
Marzullo, perché sempre di notte?
«A volte non c’è un perché. È stata la notte che ha scelto me. E le spiego come. Ero arrivato da poco in Rai, era il 1988, la rete chiudeva a mezzanotte e quindi venne aperto uno spazio dopo la mezzanotte. Si chiamava, appunto, Dopo Mezzanotte, e durava 5 minuti, andava insieme al Tg1 di allora, diretto da Nuccio Fava. Quando mancò lo spazio per portare il telegiornale alla precisa messa in onda di mezzanotte, mi fu detto di inventarmi una cosa a bassissimo costo che durasse almeno mezz’ora. E io andai in via Teulada, presi un orologio, misi una lancetta sulle 12 e dintorni e scrissi il programma. Quando chiuse anche quello, nacque Sottovoce».
Lei è un insonne?
«No, ma preferisco la notte al giorno. Da sempre il mio metabolismo funziona meglio di notte. Vado a letto molto tardi».
Quanto tardi?
«All’una e mezza».
Ma non è così tardi.
«No? Io comunque non vorrei mai andare a dormire, ho sempre paura di non svegliarmi, ho paura di morire, ce l’ho da sempre e sempre di più. Morire è una schifezza, un’ingiustizia, io non mi ci rassegno, quando sono particolarmente malinconico penso che sarebbe meglio non venire al mondo e invece poi capisco di essere ingiusto e ingrato, perché la vita è bellissima, ma proprio questo mi dispera e tutte le volte che parlo con un prete gli domando come sia possibile che Dio ci dia la vita, una cosa tanto preziosa e speciale, e poi ce la tolga».
L’alternativa, però, sarebbe vivere per sempre. Lei è così sicuro che ci riusciremmo?
«Io sì! Eccome! E non a caso faccio lo stesso programma da trent’anni».
Come ha fatto a farlo durare così tanto?
«Non lo so. Però avevo voglia di durare tanto tempo. Mi sono tenuto in una posizione di nicchia. E poi il programma è sempre andato bene».
Descriva Sottovoce a chi non sa cosa sia.
«Sottovoce è un parlare con gli altri conoscendo me stesso. Finora, in quello studio, ho parlato con quasi ottomila persone».
Non è mai stanco?
«Mai. Io mi stanco solo quando vado in vacanza, e infatti ci vado pochissimo».
Viaggiare non le piace?
«Ora molto meno, e poi ho paura di partire, perché ho sempre paura di non tornare. Il mio ideale di vacanza è oziare e il massimo dell’ozio per me è stare seduto al bar a guardare chi passa».
A godersi la pensione non ci pensa proprio?
«La considero una organizzazione che si sono dati gli uomini, per me non esiste, io vorrò morire lavorando, se ce la faccio fisicamente».
Come Matilde Serao, che è morta scrivendo.
«Ed ha fondato il Mattino, dove sono stato praticante giornalista».
Lei è giornalista, conduttore o artista?
«Sono un giornalista conduttore, o un conduttore giornalista. Artista proprio no, se mai un artigiano che aggiunge a quello che fa un po’ di fantasia e leggerezza».
Si sente mai invadente?
«No, mai. Per fare i giornalisti non serve l’invadenza ma la tenacia di cercare storie e la capacità di non essere vittime delle proprie opinioni».
La sua prima intervista?
«A Paolo Rossi, che me lo ha sempre ripetuto. Per Sottovoce, la prima è stata Amanda Sandrelli».
La televisione deve essere abitudinaria?
«Sì. E soprattutto deve essere ripetitiva. Si deve creare un appuntamento con lo spettatore, e il messaggio in tv deve essere molto chiaro: devi dire a chi ti guarda che cosa fai con grande semplicità e limpidezza. Devi far capire chi sei, cioè cosa offri. Un programma è un prodotto che regali all’attenzione dello spettatore».
Ci va in giro di notte?
«Ora no, prima sì. Andavo al Gilda, a Roma, dopo il lavoro, perché trasmettevamo in diretta. Poi andavo a prendere i cornetti e poi andavamo tutti a casa. Al Gilda una volta intervistai Alberto Moravia, che se ne stava lì tutto solo».
Fare programmi notturni è più facile? Meno problemi di share, meno concorrenza, meno pubblicità.
«Io allo share non ho mai badato troppo: ho sempre e solo tenuto a riconoscermi in quello che facevo. Sin da piccolo mi piace parlare con le persone, scoprire perché hanno fatto le scelte che li hanno portati a diventare chi sono. Ho finito col farlo diventare il mio mestiere».
Se non avesse fatto questo, sarebbe diventato?
«Uno psichiatra. Sono laureato in medicina. Mi piacciono le persone, e soprattutto mi piacciono quelli che chiamiamo “malati di mente”, perché hanno sensibilità e intelligenza così fuori dalla media che si sono ammalati. Sono straordinari».
Ci va in analisi?
«No, non ci sono mai stato».
Perché ha sempre una camicia a righe?
«Quando iniziai a lavorare con Fazio, indossavo sempre giacca e cravatta. Però volli darmi un aspetto più pop e allora comprai una camicia a righe, perché le righe mi hanno sempre fatto impazzire, e tolsi la cravatta. Mi presentai con quel look e piacque molto, cominciammo a scherzarci e allora diventò la mia uniforme».
A Roma l’ho vista più volte passeggiare con addosso una camicia a righe.
«Sì, le uso anche fuori».
Anche lei ha bisogno delle sue abitudini, come la tv.
«Quando trovo una camicia che mi piace, ne compro sette identiche, ma di colore diverso. Vale anche per le penne, i cappotti e le scarpe».
Sul lavoro è litigioso?
«No, ma combatto per le mie idee, perché ne ho poche e in quelle poche credo molto. Cerco sempre l’accordo. E mi guadagno il consenso».
Lei è di destra o di sinistra?
«Io sono per gli uomini. Quelli bravi».
Come mai ci ha messo vent’anni a sposarsi?
«Il matrimonio non cambia la profondità di un rapporto. Però a un certo punto, se senti di doverlo fare, lo fai. Io avrei aspettato ancora, a dire la verità. E mi sono sposato a 65 anni. Ma sono felice, siamo felici. Lo eravamo anche prima».
Ha rimpianti?
«No. Sono stato fortunato: dovevo fare il medico ma ho capito che sarebbe stata migliore l’altra strada che mi si era aperta davanti e sono riuscito a percorrerla. Nella vita la fortuna è importante ma bisogna saperla riconoscere e andarle incontro. Se vedi una donna che ti piace, non basta guardarla: devi presentarti a lei, provare a costruire un rapporto».
A Sottovoce invita soprattutto donne.
«Da sempre. Michele Santoro e Freccero mi hanno sempre detto che parlare con le donne mi viene meglio e forse è vero. Io penso che a me piace parlare con tutti allo stesso modo ma penso pure che le donne sono più brave, in tutto».
Piange?
«Ho pianto quando ho perso i miei genitori e mio fratello, che aveva solo 42 anni. Ecco, a proposito di rimpianti, mi sarebbe piaciuto passare ancora più tempo con tutti loro, anche se ho sempre fatto il possibile per averli vicino. A lungo hanno vissuto al primo piano del mio palazzo, e io al quarto. E piango ai matrimoni dei miei amici».
Che ventenne è stato?
«Capellone. A Pisa. Pieno di sogni e voglia di fare, in fondo come adesso. Volevo fare l’attore e mi informai al Centro sperimentale di cinematografia di Roma. Però non ebbi il coraggio di presentarmi, anche perché avevo da dare l’esame di anatomia».
Si faccia una critica.
«Sono molto abitudinario. Ma come tutti gli abitudinari conosco anche la trasgressione».
Si faccia un complimento.
«Penso di essere una persona perbene. Ma per ottenere quello che voglio faccio qualche deviazione».
L’amore dura?
«Finché dura, come diceva Troisi. E quando finisce, non è colpa di nessuno».
L’amicizia conta?
«Molto e dura più dell’amore. Ma gli amici sono pochi, li conto sulle dita di due mani, non di più. Amicizia e amore sono sentimenti per i quali non si può fare niente: arrivano e basta. Ne prendi atto, non li puoi costruire, li puoi solo mantenere e nutrire».
Cosa nessuno sa di lei?
«Che sono timido. Fuori da uno studio televisivo mi terrorizza anche parlare».
Come vuole essere ricordato?
«Voglio essere vivo, non ricordato. Ho detto ai miei cari che quando morirò, vorrei che si sapesse dopo mesi».