La Stampa, 13 novembre 2024
I comunisti che mangiano caviale
Lo so, arrivo per ultimo ma non resisto: colpa della foto di Pierluigi Bersani che mangia credo pappardelle, credo al ragù, e ironicamente si rivolge a Meloni: “Come sempre, caviale”. Ho sofferto a sentire Elly Schlein respingere sdegnata l’accusa: mai mangiato caviale! Questo lungo infinito doloroso tramonto della sinistra italiana e anzi mondiale: ma quanti racconti abbiamo letto di viaggi in Russia – Erskine Caldwell, Carlo Levi, Alberto Moravia – tutti a scoprire il nuovo mondo sovietico, e nel frattempo scoprivano il caviale. Il grande Emanuele Macaluso raccontò per esempio – e non fu certo l’unico comunista a dettagliare su simili lussi – del XXI Congresso del Pcus, anno 1959, e della delegazione italiana che fu condotta al teatro Bolshoi e, durante la pausa, ricoperta di caviale e inondata di vodka. Anche a Palmiro Togliatti capitava di rimpatriare con caviale nella borsa, e nemmeno gli veniva in mente di nasconderlo. Ma l’inarrivabile fu Livia Aymonino, figlia di Carlo, architetto cresciuto sotto la protezione dello zio fascista, il gigantesco Marcello Piacentini, per poi proteggersi da sé col passaggio al Pci. Livia scrisse un libro di ricette in rima, in cui di caviale ce n’era a tonnellate. Non sia mai, spiegò, che si consideri gauche caviar solo un banale modo di dire (intanto che lei preparava le tartine, suonavano alla porta Massimo D’Alema e Eugenio Scalfari). La spiegazione era di una logica deliziosa: i comunisti, disse, si dividono in due categorie, quelli che mangiano i bambini e quelli che mangiano il caviale; noi mangiamo il caviale. Poi rimangono frugalità e ipocrisia da crepuscolo.