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 2024  novembre 13 Mercoledì calendario

Le prove che Omero è esistito

È meglio leggere prima l’Iliade di Omero, oppure Omero e l’Iliade di Robin Lane Fox? Accostarsi prima all’originale greco e poi all’imponente e riepilogativo saggio che il classicista britannico, professore emerito al New College di Oxford, ha dedicato al poema, edito in Italia da Einaudi? In altri termini, è meglio la lettura ingenua, disinformata, di un capolavoro, che ce ne consegna per intuito la primitiva grandezza, oppure preparare il terreno con un testo preliminare, per apprezzarne meglio implicazioni e sviluppi? Se un lettore ci chiedesse un consiglio, ci troveremmo in grave imbarazzo. Ma, per fortuna, ci soccorre la duplice e rara natura del lavoro di Lane Fox (forse, il suo maggior titolo di nobiltà): se da un lato è uno studio analitico sull’enigma di Omero, dall’altro è un appassionato invito alla lettura dell’Iliade, che l’autore non esita a definire «il più grande poema epico della letteratura mondiale (…) il primo in assoluto, superiore persino all’Odissea». Non presuppone una conoscenza dell’opera, ma la caldeggia. Come dire, il percorso vale nei due sensi e in ogni caso è proficuo: sia che all’Iliade si arrivi grazie a Robin Lane Fox sia che a essa si ritorni con uno sguardo più profondo e nuovo, ancora grazie a lui. 
Nella letteratura mondiale non esiste niente di paragonabile all’epica omerica. Per tanti motivi, fra cui i problemi critico-testuali che essa pone. Non solo è in dubbio l’identità del suo autore, ma persino la sua stessa esistenza. La «questione omerica» sembra il paradosso di Achille e la tartaruga: quanto più ci si approssima all’oggetto della ricerca, tanto più esso sfugge. Omero è sempre un tratto davanti a noi. Già Giuseppe Flavio, storico ebreo del I secolo d.C., poneva i termini del dibattito: «Si ammette concordemente che, presso i Greci, della scrittura non vi è traccia prima dei poemi di Omero. Dicono anzi che neanche lui abbia lasciato la sua opera in forma scritta, ma che essa fosse tramandata e cantata a memoria e che solo in seguito da quei canti sia stata messa insieme una stesura scritta; e che questo spieghi le molte contraddizioni che vi si riscontrano» (Contro Apione, I, 12). Secondo le fonti antiche, la codificazione dei poemi sarebbe avvenuta ad Atene nel VI sec. per volontà del tiranno Pisistrato, che «si dice per primo abbia messo insieme i libri di Omero» (Cicerone, De oratore, III, 137). 
Di qui si sarebbero divaricate le tendenze interpretative moderne: gli unitari, che attribuiscono i poemi omerici a una mente poetica unica e ascrivono le incongruenze a interpolazioni successive; e gli analitici, che portano le medesime incongruenze a prova della natura stratificata del testo, prodotto della sua trasmissione orale. Secondo Giambattista Vico, primo teorico moderno dell’ipotesi «oralista», «i popoli Greci furono quest’Omero» (Discoverta del vero Omero, 1730): l’Omero-poeta si dissolve così in un Omero-idea, incarnazione fittizia di una memoria collettiva che si sarebbe, a un certo punto, cristallizzata grazie ad anonimi «poeti letterati». Omero scompare così sullo sfondo, retrocesso a «immaginario antenato» di una scuola di aedi, gli «omeridi» (Gilbert Murray, Origini dell’epica greca, 1907). L’interpretazione analitica è parsa sorretta da studi di antropologia comparata condotti su altre tradizioni orali sopravviventi. 
In questo punto del dibattito si inserisce il saggio di Robin Lane Fox, per il quale Omero è tutt’altro che un’idea, ma una persona realmente esistita, nonché l’iniziatore di una forma letteraria senza precedenti: l’epica. Intorno a questo convincimento lo studioso costruisce la propria teoria su come, dove e quando l’Iliade sia stata composta. Delle argomentazioni addotte scegliamo qui una, quella a nostro avviso più istintivamente coinvolgente perché coglie il nucleo sensibile della teoria unitaria: qualcosa dentro di noi oppone resistenza all’ipotesi di rinunciare all’autorialità dell’Iliade. Se così fosse, sarebbe ancora possibile considerarla quella potentissima e splendente opera di poesia che ancora ci appare, scaturita dal nulla ma già dotata di una sua maestosa consistenza? La risposta di Lane Fox è un reciso no: «Vi è un aspetto del poema che sfida tutte le teorie sulla sua origine frammentaria e l’irrilevanza di Omero: l’Iliade ha inizio nel decimo anno della guerra di Troia e la sua azione dura in tutto cinquanta giorni». Chi l’ha composta restringe dunque a un brevissimo lasso di tempo «una guerra decennale che aveva prodotto innumerevoli battaglie e coinvolto centinaia di eroi». Per raggiungere questo risultato, «ricorre abilmente a due espedienti, i salti nel passato e le anticipazioni del futuro, di cui potrebbe essere persino l’inventore e che inserisce nei discorsi dei protagonisti». Questa «miscela di compressione e completezza narrativa, unita a un attento controllo degli avvenimenti passati e futuri, non è facilmente compatibile con le teorie di una composizione frammentaria del poema». Ne consegue che «la storia narrata è diretta in modo tale da poter essere definita un intreccio», implicando così «l’esistenza della mano di un singolo poeta che guida lo svolgimento»; una mano che «sa perfettamente dove vuole arrivare». È l’architettura del poema a rivelarne la genesi: secondo Lane Fox, Omero può essere considerato l’ideatore di un genere che fa dell’intreccio la sua sostanza vitale, un «espediente narrativo» talmente caratterizzante da diventare tipologico di una forma letteraria che gli stessi Greci, più tardi, definiranno «epica». 
Ma le ipotesi unitarie, anche quelle più caldamente sostenute, non sono esenti da zone d’ombra: è lo stesso Lane Fox a portare l’attenzione sul fatto che nell’Iliade esistono due «notevoli eccezioni» – il decimo libro (la cosiddetta Dolonia) e il catalogo delle navi nel secondo libro – che sfuggono alle maglie strutturali del poema e non vanno considerate farina del sacco di Omero. Se dunque «è un errore pensare che l’unità di concezione di un’opera comporti l’esistenza di un solo autore, è anche vero che il resto della trama(corsivo nostro) dell’Iliade è così disseminato di corrispondenze che è fin troppo evidente che dietro la sua ideazione c’è la mano di un unico poeta. Quest’ultimo è certamente un individuo, un “lui”, non una lunga tradizione impersonale, un “si”». 
La filologia è una disciplina indiziaria, non una scienza esatta: è la speculazione di chi la pratica a decidere quanto il «resto» pesi rispetto all’elemento che non si lascia ridurre alla nostra congettura. Ed è quello che Lane Fox fa, con chiarezza e onestà, nella prima parte del suo libro. Il suo è un «tentativo di aggiungere qualche altra tessera al puzzle del significato di una remota età del mondo, la cui bellezza e forza ispiratrice sembrano brillare di una luce tanto più intensa quanto più risolutamente ci si impegna per comprenderla», come scrive Murray introducendo le sue Origini dell’epica greca. Lane Fox «sottoscrive» le parole del suo predecessore oxoniense, sostenendo la tesi opposta. Le formule che intercalano il suo discorso («a mio avviso», «per quel che mi riguarda», «sono convinto») non sono vezzi del linguaggio accademico, ma misure di rispetto nei confronti del mistero che Omero ancora rappresenta. Segnalano e al contempo difendono lo spazio della discrezionalità, la visione in soggettiva che sempre accompagna l’indagine sui testi antichi. 
La disputa intorno a Omero mette alla prova da secoli le intelligenze di studiosi e dilettanti perché a nessun testo riconosciamo un valore fondativo pari a quello delle due opere che gli sono attribuite. Anzi, il dibattito contemporaneo si spinge addirittura, con inaudite forzature, a retrodatare al tempo di Omero alcune delle storture (vedi il sessismo e il razzismo) che appartengono evidentemente al nostro, come se avessimo ereditato ipso facto, insieme alla versione del mito, anche valori, modelli, schemi mentali risalenti all’VIII secolo a.C. e che peraltro si riferiscono spesso a una società ancora anteriore, quella micenea. A questi valori e modelli è dedicata la seconda parte di Omero e l’Iliade, in cui Lane Fox entra nel vivo dei contenuti del poema per dare risposta a un altro quesito, meno filologico ma altrettanto intellettualmente seducente: «perché l’Iliade esercita ancora un tale potere sul lettore». A un’analisi dell’etica eroica e del culto della guerra si affianca così una descrizione dei «mondi paralleli» (le donne, gli déi, la natura) rispetto all’azione principale, che smentiscono la communis opinio secondo cui il poema parlerebbe «solo di uomini che combattono e uccidono». 
Il racconto di questi mondi mira a dare ragione del fascino dell’Iliade, un’attrazione che è per la nostra cultura tanto fatale quanto inesplicabile. Per questo il nostro moderno Achille non può che continuare a inseguire ostinato un’irraggiungibile tartaruga.