Corriere della Sera, 13 novembre 2024
Biografia di Nino Frassica
Nino Frassica: «Arbore rischiò di strozzarsi per quanto lo feci ridere. Terence Hill vive da monaco, dubitavo della sua esistenza»
Nino Frassica, lei ha scritto un libro, «Piero di essere Piero». Ogni tanto torna alla sua comicità surreale?
«È una galleria di Pieri immaginari, una piccola umanità che non esiste ma che in fondo è molto vera: in ognuno di noi c’è una vena grottesca».
Lei cominciò con il teatro, Ionesco per la precisione.
«Recitavo in una compagnia, “I cantatori pelosi figli della cantatrice calva”. Ma questa comicità oggi è difficile farla. Forse i cinepanettoni sono stati un’occasione sprecata, lì si poteva essere surreali».
Lei ne ha fatto più di uno.
«E uno anche con Alberto Sordi, Vacanze di Natale ’91. Sordi era il mio mito».
La prima volta che lo incontrò?
«Feci scena muta».
Come?
«Nella serata dei David di Donatello, io dovevo fare uno sketch. Lo vidi, mi avvicinai, lui mi diede un pizzicotto sulla guancia, poi se ne andò. Non fui in grado di dire una parola».
Timidezza?
«Sono siciliano, di Galati Marina, frazione di Messina. Sono uno che non ama chiedere, tanto è vero che quando volevo fare l’attore a tutti i costi sognavo di lavorare con Renzo Arbore ma non mi proposi mai».
E come fece per arrivare a «Quelli della notte», dove debuttò 40 anni fa?
«Mi feci dare il numero di telefono di Renzo. Ogni giorno gli lasciavo un messaggio anonimo nella segreteria telefonica».
E che cosa gli diceva?
«Recitavo. Inscenavo piccoli spettacoli solo per lui, senza chiedere nulla e senza dire chi ero. Lo corteggiai così».
Ci riuscì.
«Non prima di averlo quasi ucciso: in seguito mi raccontò che ogni sera correva ad ascoltare i messaggi della segreteria e una volta stava mangiando una mela. Cominciò a ridere in modo così convulso che quasi si strozzò».
«Quelli della notte», «Indietro tutta». Palestre di comicità surreale.
«Si improvvisava, ma con intelligenza. Non puoi improvvisare e basta, devi conoscere bene dove sei e quello che stai facendo. Ancora oggi, in Don Matteo, a me capita di improvvisare nei panni del commissario Cecchini, ma guai a farlo senza sapere tutto del contesto».
«Don Matteo» è arrivato alla 14esima stagione.
«Abbiamo superato la Signora in giallo e il Tenente Colombo».
Come approdò alla fiction?
«Mi chiamò Enrico Oldoini, e quando mi disse che Terence Hill avrebbe fatto Don Matteo ero incredulo. Le confesso una cosa: Terence per me era una sorta di leggenda, giuro: pensavo che non esistesse davvero».
Ce lo ricordiamo tutti accanto a Bud Spencer.
«Quando mi chiamò al telefono la prima volta pensai a uno scherzo e non avevo tutti i torti, perché la sua voce prima di allora non l’avevamo mai sentita, era stata sempre doppiata».
Nel libro lei scrive che ancora oggi, a 85 anni, lui «corre 20 chilometri al giorno con un minifrigo da hotel sulla schiena». Ma è vero?
«Ovviamente no, anche se poche persone come lui hanno un’energia di così lunga durata. Merito delle sue abitudini sane e quasi monacali. Pensi che una volta finimmo una stagione e decidemmo di fare una grande festa, una baldoria. Glielo dicemmo e lui rispose: “Benissimo, facciamo intorno alle sette di sera?”».
Il perfetto Don Matteo, insomma.
«Ma anche con Raoul Bova (l’attuale protagonista, ndr) si lavora benissimo. Sapesse che risate che ci facciamo. Le confesso un’altra cosa. Quando dobbiamo fare delle interviste, ci mettiamo d’accordo e facciamo in modo di usare sempre una parola decisa dall’inizio. Per esempio una volta scommettemmo che avrei usato il termine Supercalifragilistichespiralidoso. Lui era sicuro che non ce l’avrei fatta, ma io riuscii a infilarla».
E in questa intervista quale parola chiave ha scommesso di usare?
«Si figuri se glielo dico».
Ormai l’Umbria è casa sua.
«Nei primi tempi sì, ci si trasferiva e si viveva blindati per nove mesi. Oggi però alcune scene vengono girate negli studi di Formello, vicino a Roma, quindi si sta un po’ in Umbria e un po’ a Roma. Per dire, la casa del commissario Cecchini è a Formello».
Un ricordo dell’infanzia a Galati Marina.
«Una volta uscii di casa e invece di andare a scuola mi nascosi in una barca».
Da lei mi sarei aspettata «in una bara».
«No, per carità, la morte no».
Ne ha paura?
«Per la precisione ho voglia di vivere: di lavorare, di recitare, di far ridere, di scrivere e di fare scherzi».
Lei prega?
«No».
Mai?
«Non mi viene».
Se le dico Giorgio Faletti che cosa le viene in mente?
«Un enorme dolore quando morì. Eravamo amici, abbiamo lavorato assieme al programma Acqua calda. Quando decise di andare a Sanremo, mi fece ascoltare in anteprima e in via riservata Signor tenente. Io osservai che era una bellissima canzone ma che la sua faccia da ragazzo giovane non lo avrebbe aiutato. Lui poi si fece crescere la barba, non so se perché glielo avevo consigliato io».
E se le dico Fabio Fazio?
«Una chiave di volta, un po’ come lo è stata, per lo spettacolo, Renzo Arbore. Che tempo che fa mi dà la possibilità di esprimere una parte di me ironica e libera. Fabio è un grande professionista: non va in onda se non ha letto tutti i libri e visto tutti i film di cui si parla in trasmissione».
E Carlo Conti?
«Un nuovo Pippo Baudo, uno che fa tutto, dalla scrittura alla conduzione. Oddio, Pippo è speciale: una volta l’ho visto che correggeva il trucco a una ballerina».
E se le dico Barbara?
«Be’, mia moglie (Barbara Exignotis, ndr)».
Certo, ma che cosa le viene in mente?
«L’amore di una donna che mi starà accanto nei prossimi anni».
Un «no» importante che ha detto?
«Dissi di no a Boris, ma poi me ne sono pentito perché non avevo capito bene quanto fosse intelligente e geniale quella trasmissione».
Qual è stata la maschera più importante dell’Italia degli ultimi decenni?
«Direi Fantozzi, una maschera geniale. Ma vorrei ricordare anche Cetto Laqualunque: Albanese ci ha regalato uno dei personaggi più rappresentativi del nostro tempo».
Una comica che le piace?
«Marina Massironi».
Che cosa la spaventa?
«Il non riuscire più a fare questo lavoro. Ma ho preso una decisione: quando comincerò a scordarmi le battute o non sarò più in grado di reggere un microfono in mano, sparirò. Come Mina».
Come dice Luca Bizzarri, «bisogna avere un amico che ci avvisi».
«Infatti, ho pregato Barbara di avvisarmi quando e se comincerò a perdere colpi. Queste cose te le deve dire una persona che ti ama: le produzioni non te lo diranno mai».