Corriere della Sera, 5 ottobre 2024
Gli Etruschi e il Novecento
Avvolti da un’aura mitica, ma così familiari e ironici, anticonvenzionali, «semplici e nello stesso tempo raffinatissimi», gli etruschi «riescono a coinvolgere profondamente il mio spirito», scriveva Marino Marini. Se Arturo Martini fu talmente influenzato dai manufatti etruschi, specie dai prodotti della coroplastica popolare, da affermare: «Io sono il vero etrusco; loro mi hanno dato un linguaggio e io li ho fatti parlare, li ho espressi», il suo allievo Marini proclamava con non minore orgoglio: «Io sono etrusco! Lo stesso sangue riempie le mie vene. In Martini e in me rinasce l’arte etrusca, noi continuiamo da dove loro si sono fermati».
Il Mart e la Fondazione Luigi Rovati presentano «Etruschi del Novecento», un grande progetto espositivo sull’influenza che ebbe la civiltà etrusca sulla cultura visiva del secolo breve: a partire dai ritrovamenti archeologici e dai tour etruschi, organizzati a cavallo tra il XIX e il XX secolo, fino alla Chimera di Mario Schifano, eseguita durante una performance a Firenze nel 1985, in occasione dell’inaugurazione del cosiddetto «anno degli etruschi».
A cura di Lucia Mannini, Anna Mazzanti, Alessandra Tiddia e Giulio Paolucci, due mostre complementari: dal 7 dicembre al 16 marzo al Mart di Rovereto, dall’1 aprile al 3 agosto alla Fondazione Rovati di Milano. Saranno esposte 200 opere per un dialogo tra capolavori dell’arte moderna e reperti archeologici a cui si aggiungono documenti, libri, fotografie, riviste. «Tutto il Novecento - commenta Vittorio Sgarbi, presidente del Mart - è percorso da una “febbre etrusca” che va da Martini a Serafini e che indica un percorso non classico, ma espressionistico, deformante dell’arte del Novecento, una vera e propria estetica della deformazione senza tempo». Tutto cominciò con la scoperta, nel 1916, dell’Apollo di Veio, terracotta policroma della fine del VI secolo a.C. che ritrae la divinità ad altezza naturale, lontana dagli stereotipi di bellezza e perfezione delle proporzioni del celebre Apollo del Belvedere e dell’arte greca. «L’Apollo che cammina», come fu chiamato, diventò un divo del Novecento. Nel 1926 sul manifesto della prima esposizione di Novecento Italiano, il movimento animato da Margherita Sarfatti che voleva farsi promotore del rinnovamento dell’arte italiana, campeggiava proprio l’Apollo etrusco. Il sorriso arcaico, gli animali fantastici, la vita e la morte, lo stile sintetico, sincero e «primitivo» del popolo misterioso ammaliarono numerosi artisti.
Ad alimentare la «rinascenza etrusca» contribuì anche Gabriele d’Annunzio, con l’opera drammaturgica La città morta, interpretata da Eleonora Duse: una tragedia ambientata in un tempo sospeso, nel quale i protagonisti si muovono tra un repertorio indistinto di copie di opere archeologiche. Con importanti prestiti e col display allestitivo di Officina delle idee, la mostra trentina accoglierà i visitatori con L’Etrusco (1976) di spalle che si specchia, di Michelangelo Pistoletto. L’etruscomania sarà contagiosa anche all’estero. Ecco in avvio dell’excursus The Etruscan scene: Female ritual Dance I and II (1985), due fogli di Andy Warhol tra i preziosi reperti archeologici. Dalle ceramiche di Gio Ponti, ad 11 opere di Marino Marini e altrettante di Massimo Campigli e il suo mondo popolato da figure primordiali dai volti dai lineamenti essenziali che diventano mascheroni; dalla calma della Donna che cammina (Femme qui marche) (1936) di Alberto Giacometti alla Femme debout (1930) realizzata da Pablo Picasso con un ramo di abete inciso con un temperino; dal Giano bifronte (1962) di Gino Severini ad interpretazioni etrusche di André Derain, Mario Sironi, Fausto Melotti, Arnaldo Pomodoro, Afro Basaldella e Giacomo Manzù. Fino alle due versioni più studio del Leone di Monterosso - Chimera (1933-1935) di Arturo Martini e alla già citata Chimera di Schifano, una chimera come la fantasticavano gli Etruschi: un animale impossibile, composto da dieci bestie diverse, metafora della superiorità della fantasia sulla realtà.