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 2024  novembre 12 Martedì calendario

Enrico Vanzina a ruota libera

«L’umorista non può prescindere dalla verità. Chi scrive rappresenta personaggi. Se ci levano pure questo è la fine». Perciò, dichiara Enrico Vanzina, «è ipocrita far finta che certe cose non si possano dire, anche perché sono quelle che sentiamo ovunque, al bar, allo stadio, in vacanza». Il politically correct ha imbavagliato la commedia, così Vanzina ha deciso di scrivere un libro, Noblesse oblige (HarperCollins), in cui racconta senza censure la storia, ambientata nell’Italia primi Anni 80, del Principe Ascanio della Scaletta e del suo maggiordomo napoletano Gegè, alla ricerca dell’agiatezza perduta, tra eredità sognate, Natali in bolletta, vacanze a Cortina che ricordano antichi cinepanettoni. Il livello di trasgressione è altissimo, basta pensare che, parlando di una danarosa nobildonna, Vanzina, a un certo punto, fa dire al suo protagonista «Oddio, l’onomastico delle racchie!.
Di questi tempi, un bel coraggio…
«Ho voluto questo libro proprio per sfuggire al territorio infido del “si può dire o no”, per dimostrare che si può ignorare il politically correct, dipende dai personaggi che si raccontano. Se un uomo è grasso, lo scrivo e così se c’è una donna bruttina. È ipocrita far finta che la gente non si esprima così, se si racconta la realtà è inevitabile inciampare in qualcuno che sia scorretto».
Come mai un libro comico in un momento storico in cui c’è così poco da ridere?
«Perché mai come adesso abbiamo bisogno di ridere. Siamo stati il Paese che ha inventato la commedia all’italiana, sapevamo che, andando al cinema, grazie ad alcune maschere, potevamo confortarci pensando che l’Italia è un Paese meraviglioso e noi, anche se in tante cose facciamo disastri, siamo veramente simpatici. Se lo dimentichiamo rischiamo di diventare antipatici».
Che cosa la fa ridere di più?
«La battutaccia non mi fa ridere, anche, se certe volte, l’ho messa pure io nei film. Per esempio “questo Natale ce lo siamo levati dalle palle”, diventata ormai un classico, è una battuta volgare solo in apparenza, dentro c’è un’osservazione sociologica. Mi fa ridere molto l’atteggiamento di chi pronuncia la battuta, sono innamorato di Sordi perchè faceva ridere senza mai usare parolacce, solo con il non detto».
Chi è l’ultimo, in ordine di tempo, che l’ha fatta ridere?
«Carlo Verdone, tutte le volte che gli parlo al telefono. Anche quando prova rabbia e indignazione, lo manifesta senza cattiveria, con la capacità di osservare la vita fino in fondo».
Non avete mai lavorato insieme, come mai?
«Vero, però ci siamo detti che dovremmo farlo, mi piacerebbe tantissimo, siamo amici. Carlo è un uomo buono, spesso, attraverso i suoi personaggi, mostra lo sguardo dell’ingenuo che passa tanti guai perché è inadeguato ai grandi eventi della vita, l’amore, il rapporto con gli altri. Una sua caratteristica, anche nella vita reale. Si parla spesso della sua malinconia, dell’ipocondria che, in verità, corrisponde a vere conoscenze da scienziato, ma Carlo, soprattutto, è un uomo gentile».
C’è molta gente a lutto per la vittoria di Trump. Lei che dice?
«Non sono pro-Trump. Non sono contentissimo, però non sono nemmeno distrutto dal dolore. Da lui aspetto solo che faccia finire le guerre. Se ci riesce, sarà un presidente da ricordare. Le facce lunghe sono ideologiche, io non lo sono, mi auguro che Trump non rifaccia i grandissimi errori del passato».
Titolo e sottotitolo del libro (Una storia di miseria e nobiltà) richiamano esplicitamente Totò. Qual è il suo Totò?
«È la foto che ho anche adesso sotto gli occhi, avevo 2 anni, siamo sul set di Guardie e ladri, Totò mi tiene per mano vestito da ladro, reduce dalla scena dell’inseguimento con Fabrizi. La tengo qui perché, per me, nasce tutto da lì, credo che Totò si sia sdoppiato. Era un principe, e, da tale, ha ragionato e vissuto, ma si è permesso di fare Totò, il re degli ignoranti, quello che ha la licenza di dire tutto quello che vuole, prendere in giro i ricchi, i politici, scardinando luoghi comuni e inventando un linguaggio strepitoso, tutto suo».
Noblesse oblige mette in scena l’archetipo classico nobile-maggiordomo. Che cosa l’attira di questo duetto?
«Ho molto amato il cinema che parla di quello strano rapporto che esiste nell’alta società tra chi serve e chi è padrone, sono due topos della letteratura in cui succede sempre che chi comanda sia affascinato dal mondo di chi è sottomesso e viceversa. Penso al meraviglioso maggiordomo di Anthony Hopkins, a quel mondo anglosassone stile Downton Abbey, a una ritualità meravigliosa che mi tocca nel profondo».
Ma i veri aristocratici esistono ancora?
«Ne ho conosciuti tanti. Vivo al centro di Roma, circondato dai palazzi della grande aristocrazia romana, molto diversa da quella del Nord: i nobili romani rientrano nella tradizione del Marchese del Grillo. Con la loro simpatia, la loro ferocia, e un dialetto romano popolare bellissimo, sono riusciti a non far nascere la borghesia. La loro vendetta è stata questa, il sogno dei borghesi è diventare principi. È un’aristocrazia che non ha mollato nulla, anche se, in tanti, la considerano inutile e superata».
Ha scritto un libro tristissimo sulla fine di suo fratello Carlo, e ora un libro divertentissimo su una strana coppia. A che punto è della sua vita?
«Ho passato sei mesi tra ospedali e problemi di salute, ora sto bene e sono in un momento di grande fermento, capisco che non c’è tantissimo tempo davanti, ogni tanto, in fondo, vedo la scritta “traguardo”. Ho tantissime cose da fare, musica, fotografia, oltre al cinema dove dovrei tornare l’anno prossimo con La sera a Roma, tratto dal mio giallo».
Cosa vorrebbe fare, in questa fase dell’esistenza?
«Vorrei mettere tante “toppe”, su alcuni errori fatti nei rapporti con gli altri. Sto cercando persone che non vedo da tempo, per chiarire i motivi per cui mi sono comportato in un certo modo, di cui oggi un po’ mi pento. Vorrei essere perdonato. La cosa più bella dell’età è perdonare ed essere perdonati».
Però quest’idea del traguardo è malinconica.
«Può essere pure che, arrivato a una curva, mi facciano tornare indietro come nelle corse in bicicletta. E allora la scritta si allontana».