la Repubblica, 12 novembre 2024
Biografia di Brunori Sas
Ci passa il mondo tra i muscoli di Mike Tyson e lo sguardo buono di Dario Brunori, in arte Brunori Sas, perché «tanto la musica è azienda», 47 anni, ultimo esemplare di una dinastia di cantautori tutta chitarra, barba e occhiali. Eppure è al celebre morso all’orecchio del malcapitato Holyfield che ha dedicato una canzone, Il morso di Tyson (esce giovedì, scritta con Dimartino), un quadretto metropolitano «di nostalgia di un ultraquarantenne davanti a una coppia giovane», anticipazione di un album che arriverà nel 2025 con vista, forse, su Sanremo. Fa il vago: «Il morso è un’immagine a cui pensavo da anni. Un gesto disperato, di quando la partita è persa».
Lei l’ha mai dato?
«No. Perdoni il gioco di parole, il mio è un ri-morso per non averlo dato. Nella vita e nelle relazioni stringo i denti, non mi butto neanche quand’è finita».
E allora?
«Mi ha colpito la scena di queste due ragazze che si amano e vivono un tira e molla in cui da un momento all’altro può scapparci il “morso”. Le ho viste a Roma, in trasferta da Riccardo Sinigallia con cui lavoro al nuovo album. Stavano su una panchina. Sono nostalgico di ciò che non ho vissuto, neanche da giovane ho dato quei morsi».
Canta: «Menomale che ci siamo voluti bene quando tutto era possibile, persino credere all’amore». Di che parla?
«Adesso chi crede più al grande amore? Io, che sono idealista (ride, nda ).Ma i ragazzi mi sembrano disincantanti, i miei nipoti hanno un umorismo e un’autoironia, in questo senso, che ci sognavamo. Ma lo capisco: il mondo non fa più promesse, si difendono. Però è un distacco che sento».
È un caso che le protagoniste della canzone siano due ragazze?
«Sì e no. Nel paese in Calabria dove sono cresciuto e vivo, San Fili, è ancora strano vedere due ragazze che si baciano. Mi ha colpito. Ho una parte reazionaria (il me paesano, quello che somiglia a mio padre) e una progressista. Come tutti, chi dice il contrario mente. Sono progressista, ma fingere che l’altro lato in me non esista è scadere nell’ideologia. Semmai, ne racconto il contrasto».
Ha trovato un equilibrio in Calabria?
«Sì, ma lo dico a bassa voce. Qui siamo abituati a nascondere la felicità per pudore: non è carino, specie se gli altri non stanno bene. Credo valga anche per le canzoni: conviene lamentarsi. L’unico che sa raccontare la felicità è Jovanotti. Io, nel mio piccolo, l’ho fatto con mia figlia di tre anni: appena nata dormiva sempre, ma per solidarietà con gli altri genitori dicevo che non lo faceva mai».
La paternità l’ha cambiata?
«Mi sono preso tempo per godermela, mi ha fatto pensare meno alla carriera. E mi ha riportato a terra: mentre sono al pianoforte, di solito arriva quella manina sui tasti, a scombinare tutto e via. Poi non avevo granché da dire. Mi ha aiutato Sinigallia, ricordandomi il motivo per cui scrivo, cioè sciogliere i miei nodi».
Un album le manca da quasi cinque anni: tanto, oggi come oggi.
«A Milano sanno con chi lavorano, più di tanto non possono chiedermi. Quando ho firmato il primo contratto con una major avevo già dischi alle spalle, il ritmo è questo. Ora ho aperto anche un’azienda di vini con i familiari e sono tornato imprenditore, il mestiere da cui ero fuggito, a trent’anni, per fare il musicista. Con calma si fa tutto».
Si è tradito?
«In realtà no. Prima facevo mattoni ed ero triste, il vino mi dà gioia. Tanto è tutto autoconsumo. E mi sbagliavo: sono più imprenditore come musicista che come viticoltore, mi creda».
A proposito: la danno per certo al prossimo Sanremo.
«L’altro giorno mi ha telefonato mamma: “Ho letto che vai a Sanremo, non mi dici niente?”. La verità è che non ne so niente».
Ha detto che ha un gruppo Whatsapp in cui, con amici musicisti, durante la diretta prende in giro gli altri amici che partecipano al Festival.
«Diciamo che quest’anno potrei fare un’eccezione e disattivare Whatsapp per una settimana».
Ha conosciuto i cantautori del passato?
«De Gregori, nei camerini di un concerto di cui eravamo ospiti. È venuto lui, a stento ci credevo. Ha subito parlato di lavoro, mi ha fatto sentire un “collega”».
Lo siete.
«Il riferimento è quello, anche senza paragoni. Ma è cambiato il contesto. Negli anni 70 un cantautore aveva un valore politico, la gente pretendeva tanto, troppo. Si figuri, è stato “processato” al Pala Lido. Ora la politica è scomparsa dalle canzoni e il cantautore è uno dei tanti, di fianco alla popstar e al trapper. Fa catalogo».
E come reagisce?
«Comunque copre un vuoto: evidentemente qualcuno disposto a sentirlo c’è ancora. Solo che allora c’era una dimensione collettiva che si rispecchiava in lui, nella voglia di uscire da situazioni difficili insieme. Oggi il ragionamento è individualista, e da lì i trapper, il successo, la scalata. Non c’è niente di male. Io spero solo che ciò che canto scateni un po’ di dibattito: sarebbe già qualcosa».