la Repubblica, 12 novembre 2024
L’adolescenza difficile di Daniel Pennac
«Ho rischiato di diventare un assassino» confida Daniel Pennac. Domandandosi perché ha immaginato un cattivissimo gangster in Capolinea Malaussène, lo scrittore rivela di aver avuto anche lui pulsioni omicide quando era ragazzo in collegio, tormentato da bulli che lo volevano umiliare.
Pennac torna in libreria con un libro in parte autobiografico che Gallimard ha definito come il prequel della famosa saga dei Malaussène, il ciclo di otto romanzi che ha accompagnato i lettori per oltre quarant’anni, con più di cinque milioni di copie vendute. Il mio assassino,tradotto in italiano come sempre da Yasmina Mélaouah per Feltrinelli, ripercorre l’infanzia di Nonnino, il temibile capo banda protagonista dell’ultimo volume della sua tribù di carta.
Doveva essere un capolinea e invece è una ripartenza. Il mio assassino – uno dei libri più personali di Pennac – è soprattutto il pretesto per rendere omaggio a una galleria di persone-personaggi che compongono un universo intimo eletterario, in cui la scrittura è «la continuazione dell’amicizia con altri mezzi». «Mi interessava parlare di loro» racconta lo scrittore francese nella sua casa di Belleville, indicando la biblioteca dove – tra un ritratto di Marcel Proust e uno di Fernando Pessoa – ci sono le foto in bianco e nero di amici e sodali. Isabelle, diventata la regina Zabo, Petit Louis che si ritrova in Tijo e Jérémy Malaussène, Robert alias Loussa de Casamance, e tanti altri.
Partiamo da Nonnino, il supercattivo di Capolinea Malaussène. Da dove è spuntato?
«Ero in un periodo in cui Gallimard mi incalzava perché erano già passati cinque anni dall’uscita de Il caso Malaussène. Nel frattempo avevoavuto voglia di dedicarmi ad altro, a Fellini e ai sogni per esempio, e sinceramente non avevo idea di come sarebbe stato il seguito ormai annunciato dall’editore. Un giorno mi sono messo e bing, è arrivata quella frase. «Allora, Kebir, hai ripulito per bene?». È diventato un golpe letterario. È bastata una frase a creare una necessità romanzesca e installare un personaggio – Nonnino – che ha preso il potere sulle successive quattrocento pagine».
E quindi ha avuto voglia di risalire alle origini di questo “golpe letterario”?
«È forse uno dei personaggi più lontani dal mio universo. Per andare alla genesi di Nonnino ho pensato di raccontare la sua infanzia e il suoprimo colpo, quando ha organizzato un autosequestro per incassare un riscatto».
Non riveliamo tutto.
«Giusto, diciamo solo che già da bambino era molto serio. Il punto comunque è capire come sia potuto scaturire da me un personaggio nerissimo come Nonnino. In parte immagino che sia il disincanto che mi suggerisce la nostra epoca, con dei veri supercattivi che trionfano. Oggi vediamo Trump che è appena stato rieletto alla Casa Bianca. Mi sorprende fino a un certo punto, non ho mai pensato agli Stati Uniti come a una democrazia. È una dittatura dell’individualismo. Lo diceva già Montesquieu: il dramma degli uomini è di essere governati dapersone indegne. Questo è il contesto generale ma dentro Nonnino ci sono tante altre influenze, anche più personali».
A quali influenze si riferisce?
«C’è una cosa che non ho scritto nel libro, e forse aggiungerò nell’edizione tascabile. Da ragazzo ho passato otto anni rinchiuso in collegio. Otto anni di prigione, in cui c’erano dei compagni che provavano a fare i bulli con me. Esattamente come succede ancora oggi a tanti ragazzi. Solo che io non lo sopportavo e menavo chiunque tentasse di umiliarmi fisicamente. Non avevo paura di nulla. Nel mio lungo e disastroso percorso verso la maturità, durato fino a vent’anni, un giorno mi sono svegliato dopo una notte di risse in strada. E mi sono immaginato nei panni di un assassino. Ho pensato: se non mi fermo ora, ucciderò qualcuno. Dall’età di 19 anni fino a quasi 80 anni, non ho mai più alzato le mani su nessuno. È chiaro però che avrei potuto diventare anche io come Nonnino».
Quindi Nonnino è quasi un alter ego?
«Tutto riconduce all’infanzia. Ricordo la rabbia che provai da bambino scoprendo Mateo Falcone,breve racconto di Mérimée, nel quale il piccolo protagonista viene ucciso da suo padre per salvare l’onore. A mandarmi su tutte le furie era il fatto che il libro mi era stato suggerito come un modello di moralità. È uno dei tanti equivoci pedagogici che vengono dal sedicente mondo adulto. Ancora oggi mi batto contro questo tipo di cose. E quel furore infantile sopravvive latente in me come una vecchia febbre».
Nel libro cita molte altre persone che l’hanno ispirata.
«Non è corretto parlare di ispirazione. I personaggi li ho trovati per la necessità del racconto. Svolgono una funzione narrativa ma se li riduci a questo non sono nulla.
Nel mio caso, in modo abbastanza inconsapevole, hanno trovato un’incarnazione grazie ai miei amici.Ho avuto fortuna perché molte delle persone che ho frequentato avevano una componente romanzesca: per le vite che hanno avuto, per come stavano al mondo, per quello che dicevano. È stata una doppia fortuna perché sono convinto che chi può finire in un romanzo sia poco corruttibile. C’è un’identità un po’ ribelle, una forma di resistenza».
C’è tanto di autobiografico nei Malaussène?
«È uno scoop: i Malaussène sono una grande opera di autofiction. Scherzo, non ne sarei mai stato capace. Per me l’autofiction è un lavoro da sbirro. Per esempio, mi dovrei mettere a spiegare che oggi sono così perché ho avuto un papà cattivo e una mamma atroce? No, non m’interessa. Così come non mi domando quando e perché scrivere un libro. Qui, forse c’è stato il fatto che avevo terminato l’ultimo Malaussène e dovevo congedarmi da tutti questi personaggi. Dopo quarant’anni, subentra una forma di solitudine».
Il punto finale sui Malaussène non esiste?
«Penso invece che sia finita, a meno che un giorno non arrivasse un nuovo impulso, ma dovrebbe essere molto, molto forte».