Corriere della Sera, 12 novembre 2024
I Populisti e il popolo sovrano
I n un bel libro di qualche anno fa, il sociologo inglese William Davies stabiliva un parallelo fra gli atti di autolesionismo individuali e le scelte autolesionistiche di una comunità. Cosa spinge qualcuno a farsi del male? Cosa c’è di peggio del dolore? La totale perdita di controllo. Il dolore restituisce per un momento l’illusione del dominio: almeno su questo segmento di me stesso avrò avuto potere. Infliggersi deliberatamente del dolore comporta la consolante sensazione di avere ripreso il controllo dei propri sentimenti in un mondo che non comprendiamo più e che ci spaventa.
Allo stesso modo, sosteneva Davies, il disperato bisogno di controllo, esteso dall’individuo alla collettività, diventa una sindrome politica. Questa sindrome genera il populismo. Interi gruppi, privati di diritti, possono arrivare a sabotare il proprio benessere (o la propria libertà) se ciò garantisce loro un po’ di controllo sul futuro o, aggiungiamo noi, almeno l’illusione di questa garanzia. Tra essere vittime designate o diventare un po’ carnefici la seconda opzione può attrarre di più, anche se alla fine si danneggia se stessi.
E forse sta soprattutto qui, nella mancanza di controllo popolare e nei meccanismi di massa per reagirvi, la chiave del cortocircuito che ha mandato in tilt le democrazie liberali da poco meno d’un ventennio: da quando, con la grande crisi innescata dalla bolla dei mutui subprime e dal crac Lehman Brothers tra il 2007 e il 2008, velocemente tracimata dall’America all’Europa e dalla finanza all’economia, è apparso chiaro che il capitalismo globalizzato non avrebbe distribuito latte e miele scendendo via via i gradini della scala sociale; e che la perdita di controllo insita nel globalismo non sarebbe stata neppure compensata dal benessere diffuso, anzi.
Questi anni, quindi, hanno reso le componenti più fragili delle società occidentali (un tempo working class e adesso working poors ) assai sensibili alla predicazione di coloro che promettevano di dare voce al dolore, poiché non v’è dolore più doloroso d’un dolore muto: ma il grido populista non poteva e non può che tradurre la sofferenza sociale in un proclama di battaglia. Il populismo, diceva Paul Taggart, riempie un cuore vuoto: ma lo riempie di fiele.
Il 2007 è uno spartiacque. È l’anno del discorso di Vladimir Putin a Monaco. All’annuale conferenza sulla sicurezza mondiale il presidente russo strappa al suo Paese il vestito neoliberale che Eltsin gli aveva cucito (e da sé stesso l’abito di fido scudiero di George Bush indossato nei primi anni di mandato). E nel nome della sovranità nazionale, si propone come baluardo contro il sistema americano mondializzato. A chi si rivolge? Al mondo prossimo venturo che avrebbe coniugato populismo e sovranismo, spezzando la catena di rapporti sovranazionali su cui s’era basato l’equilibrio unipolare dell’Occidente. L’effetto sarà, nel volgere di qualche anno, la mutazione della Federazione russa, spegnendo in tirannia l’alito di democrazia che aveva soffiato dopo la fine dell’Unione sovietica: come si vede, dolore in cambio di orgoglioso recupero di controllo su sé stessi.
A seguire, Viktor Orbán manometterà nel 2011 la Costituzione ungherese (la chiameranno Costituzione Fidesz dal nome del suo partito), trasformandosi via via da primo ministro ad autocrate e lanciando la formula di «democrazia illiberale» quale cuneo di contraddizione dentro la nostra Unione europea. È la ribellione nazionalista alla presuntuosa pretesa di noi europei di ottenere una perfetta imitazione della democrazia liberale da chi, dopo mezzo secolo di sottomissione ai sovietici, mancava anche dei fondamentali: dunque fiera rivolta e, con essa, ancora dolore; recupero di controllo in cambio di perdita di libertà.
Così nella Brexit e nel primo Trump del 2016, così nell’ascesa degli estremismi europei sino a oggi si trovano invariabilmente le ragioni di un popolo che si sente negletto, di periferie urbane degradate o di intere città deindustrializzate, di padri e lavoratori (il populismo è assai virato al maschile) che si percepiscono privati del loro ruolo familiare e sociale. E queste ragioni sono sempre accompagnate dalla percezione di non disporre più del proprio destino, essendo esso in mano a banche centrali indipendenti, a trattati internazionali, a corti sovranazionali, insomma a una specie di consesso immateriale che prescinde dal consenso.
È il male oscuro dell’Occidente a fronte del quale strati sempre più significativi di cittadini europei e americani iniziano a ritenere negoziabili i canoni fondamentali della democrazia liberale (primo fra tutti la separazione dei poteri) e accettabile la perdita della democrazia stessa (o, almeno, di un po’ di essa) a patto di riavere un po’ di voce in capitolo: se non più attraverso i propri rappresentanti attraverso un uomo o una donna dalla voce forte che tutti li rappresenti. Si tratta della pericolosa illusione di chi, ormai troppo lontano dai decenni bui della prima metà del Novecento, finisce per dare come scontato e un po’ noioso il bene della libertà. E si tratta, anche, di un formidabile autoinganno economico. Per restare a Trump: The Donald scese nel 2015 dalla sua Trump Tower annunciando la propria candidatura con due argomenti chiari, dazi più alti e stop ai migranti; temi così forti da costringere anni dopo i democratici a rincorrerlo. Ma i dazi li pagano alla fine i cittadini americani con l’inflazione e lo stop all’immigrazione manda fuori sesto intere catene produttive nelle imprese statunitensi. Sofferenza autoinflitta, dunque: ma con l’incomparabile consolazione di contare qualcosa.