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 2024  novembre 12 Martedì calendario

Biografia di Luca Zaia

Un altro libro!
«Sì, è il sesto. Il quarto per Marsilio. Non sono di certo le Memorie di Adriano, ma guardi che vanno bene, eh».
 
Sì, ma come fa?
«Usciamo dall’idea dello scrittore con gli occhialini, a lume di candela. Io ho il mio sistema: detto dei file audio che poi vengono sbobinati. E via. In sei mesi si fa il lavoro. Ma così è tutto molto diretto, al lettore sembra di sentirmi parlare».
 
Dopo il viaggio della vita (in Spagna), un saggio sull’autonomia («La rivoluzione necessaria»). Questa volta il lettore lo mette alla prova... 
«Ma non è un trattato noioso! Il mio “driver” è stata l’agendina sulla quale in questi anni mi sono appuntato oltre 150 osservazioni e falsità sull’autonomia. Con serenità e disponibilità al confronto ho voluto rispondere a tutti, anche ai più scettici. C’è la mia volontà di sognare un Paese efficiente e responsabile, dove il cittadino diventi finalmente attore protagonista della propria vita e non la comparsa di altri, com’è oggi».
 
Tra i più scettici ci sono i vescovi. Quello di Cassano allo Jonio, Savino, ha detto che l’autonomia è un «pericolo mortale per l’Italia». Si è chiesto perché?
«Il pastore raccoglie lo stato d’animo del suo gregge, ma bisogna anche che non sia prevenuto. Savino non lo conosco, ma dopo le sue esternazioni ho scritto al cardinale Zuppi. Nel libro c’è il testo integrale della lettera che gli ho mandato, dove dico: “Noi siamo qui”. Perché non esistono cattolici buoni o cattolici cattivi, non è un peccato essere autonomisti».
 
È vero che poi con Zuppi vi siete anche incontrati?
«Posso dire che ci siamo visti. In ufficio da lui. Una conversazione riservata».
 
Ma l’ha convinto?
«Il cardinale è una persona profonda e intelligente. Sono certo che abbia compreso che dietro a questo progetto autonomista non c’è la volontà di lasciare indietro nessuno. Per altro io cito sempre don Sturzo: “Sono unitario, ma federalista impenitente”».
 
E lei, Zaia, crede?
«Certo. Chierichetto fino a 14 anni. Prima con la tunica nera, poi con quella rossa da “senior”. Assistente del sacerdote».
 
Non è che le è mai passato per la testa di...
«No, di farmi prete mai».
 
A messa ci va?
«Diciamo che oggi vado ad una montagna di funerali».
 
Sull’autonomia scrive: «La secessione di Bossi ha paradossalmente favorito il percorso verso l’autonomia e il federalismo. Non era possibile ma ha preparato il terreno per una riforma più concreta». È andata così?
«Bossi in un mondo analogico faceva della provocazione la sua forma di politica. Ricordo nel 1996 i pullman di turisti che si fermavano per firmare i referendum per la secessione, una cosa di un’anarchia e di una illegalità assolute. Ma la Lega così arrivò all’11% e smosse dal torpore i palazzi romani, che si inventarono la riforma del Titolo quinto. Se oggi siamo qui è il merito di quella azione lì».
 
Qualcuno potrà dire che si era tirata la corda.
«Ci sono stati momenti caldi in cui la piazza era aizzata. Ricordo quando Bossi si inventò la Guardia padana. Non era facile gestire quelle cose a livello locale. Ma era tutto funzionale ad un progetto. Era strategia».
 
Quando assaltarono il campanile di San Marco lei cosa faceva?
«Ero assessore in provincia a Treviso. Avevo 29 anni. Quel giorno andavo in auto a Sassuolo a comprare mattonelle per un appartamentino. I venetisti sottovalutarono la portata di quel gesto, ma le pene per loro furono troppo pesanti. Neanche agli assassini».
 
Con Bossi che rapporto ha?
«Sono distante da Gemonio, non lo vedo mai. Lo chiamo per gli auguri a Natale e al compleanno. L’ultima volta era fresco, stava dietro alla nipotina. Ma io non sono mai stato nel suo clan».
 
Però lui ha plasmato una generazione di leghisti.
«Lo conobbi la prima volta 34 anni fa. Era un leone, inavvicinabile. Mi sembrava Che Guevara. Non beveva alcolici, solo Coca Cola. E fumava il sigaro. Ho questa immagine in testa: una cena post-comizio, lui sopra al tavolo, super magro, adrenalinico, con la mano tutta nervi che reggeva il mozzicone. E sotto una distesa di lattine».
 
Una scena alla Sorrentino.
«Noi ragazzi eravamo ammaliati dalla sua figura. Mettevamo i manifesti sui platani, scrivevamo sui muri. Bossi ci diceva sempre: i muri sono i libri del popolo. E andavo anche io. Una volta per avere la tessera della Lega dovevi fare tre anni di militanza e c’era il tutor che verificava che andassi veramente a fare le scritte».
 
Il confronto con Salvini?
«Entrambi leader, ma sono due epoche diverse. Oggi scrivere un messaggio al segretario della Lega è facilissimo con i social. Al tempo di Bossi non c’era Internet».
 
Dal referendum sull’autonomia all’approvazione della legge ci sono voluti 7 anni. 
«Su quel referendum mi giocai la faccia. Misi il quorum al 50%: se non passava sarei andato a casa. Ricordo quelle ore frenetiche in cui mandavo messaggi audio ai miei per evitare che i festeggiamenti sui social facessero desistere chi ancora doveva votare. Verso sera, il mio audio in cui invitavo alla moderazione diventò così virale che mi arrivò sul mio cellulare da un numero sconosciuto. Alla mattina al seggio fui il primo a presentarmi con mia moglie».
 
Di lei, Raffaella, non parla mai. 
«Me la presentò un amico con cui lavoravo in discoteca. Siamo sposati dal 1998 e non ha idea di quante proposte mi fanno i settimanali per posare con lei sul divano, in cucina. Ma ho sempre voluto proteggerla».
 
In questi anni come le è stata vicino?
«È stata provatissima durante il Covid. Avevo presidi fuori casa, minacce di tutti i tipi, gente che ha fatto filmati con le istruzioni per arrivare a casa mia. Ha sofferto tanto la prima fase, io andavo via da casa, lei piangeva: non sapevi se ti infettavi e morivi».
 
Cita la Serenissima come modello, oggi Venezia rischia di ridursi a lunapark. 
«Un grave errore. Venezia dovrebbe avere come Roma lo status di città capitale. Quando Trump verrà in visita in Italia, Meloni o Mattarella dovrebbero riceverlo a Palazzo Ducale».
 
Dicono che potrebbe candidarsi a sindaco?
«Non ci sto pensando, sono concentrato sulla Regione. E poi sono fatalista. Ricordo quando Bossi e Calderoli mi chiamarono per fare il ministro dell’Agricoltura. Ero talmente sorpreso che andai avanti un mese a dire che non volevo farlo. Non mi sentivo all’altezza. Sbagliavo: fu una delle esperienze più bella della mia vita».
 
Avrebbe votato Trump?
«Sì, se fossi stato negli Usa. Neanche i miei amici democratici di New York hanno votato Harris. L’Italia ora è l’unico Paese europeo del G7 “Trump-friendly”, dobbiamo intestarci questo ruolo di pontieri. Sarebbe una bella sfida per Giorgia. Con lei eravamo ministri con Berlusconi: due ragazzi».
 
E con Berlusconi che rapporto c’era?
«Mi voleva bene. Mi manca moltissimo. Mi fece conoscere Gheddafi, Lula, Sarkozy. Un giorno ce l’avevo davanti in un salottino a palazzo Chigi: mi guardava con un occhio chiuso e il pollice puntato, come a prendere la mira. Mi disse: “Stavo vedendo se vieni meglio con le basette o senza”. Quando è morto mollai le vacanze in mezzo al Mediterraneo e feci una giornata di taxi per raggiungerlo».
 
Nel libro loda Sinner come esempio di integrazione federalista.
«Un orgoglio per l’Italia».
 
Ma non paga le tasse qui.
«Forse dovremmo chiederci quali provvedimenti di legge servano a far cambiare rotta».
 
Lei cosa farà da grande?
«C’è ancora in piedi la questione del terzo mandato. Penso che sia incredibile che non possano essere gli elettori a scegliere chi sia il loro presidente».