1 ottobre 2024
Tags : Tullio Pericoli
Biografia di Tullio Pericoli
Tullio Pericoli, nato a Colli del Tronto (Ascoli Piceno) il 2 ottobre 1936 (88 anni). Pittore. Disegnatore. «Volti come paesaggi, paesaggi come volti» (Salvatore Settis). «Sono il più noto tra i pittori sconosciuti» • «Mia madre dice che disegnavo già prima di parlare. Ma, che quella potesse diventare una carriera o una strada, chi poteva crederci? Da bambino poi disegnavo tutto il contrario degli altri bambini, che con la matita rappresentavano ogni sorta di fantasticheria. Io invece disegnavo come uno che copia, cercavo di fare le foglie e i fiori come sono. Cercavo di imparare a capire la forma di una foglia o di un fiore e disegnarli». «Ha iniziato a pubblicare i primi disegni sul giornale del liceo. La mostra d’esordio è una scelta di caricature dei professori, che espone in fondo all’aula su un tabellone messo al posto dell’orario di classe: esposizione prontamente censurata e rimossa dal preside» (Vincenzo Maria Oreggia). «Ho imparato a disegnare prima di tutto da Ernesto Ercolani, pittore di Ascoli, direttore della Pinacoteca della città. Andavo da lui il pomeriggio, e lui mi insegnava. Dovevo copiare gessi e, cosa ben più difficile per via dei riflessi, bronzi. Ercolani mi lodava, mi incoraggiava e, soprattutto, non mi perdonava. “Non ti pare che il collo vada più piegato, mica tanto, uno-due centimetri?”. Il disegno magari era finito, ma per via della testa che andava posizionata in modo esattissimo (e non c’era scampo) dovevo ricominciare daccapo. Tremendo e meraviglioso. Ero così perso in quei pomeriggi che mi bocciarono due volte, in prima e in seconda liceo, e mio padre andò a dirgli di lasciarmi perdere. Ma io non lasciai perdere. Ci andavo di nascosto. Del resto, come farne a meno? È lui che mi ha insegnato a guardare e a vedere. Poi c’è stata un’esperienza molto singolare. In Ascoli a quell’epoca, il 1955-1956, c’erano le pagine locali di due quotidiani, Il Messaggero e Il Resto del Carlino. Il Resto del Carlino vendeva settecento copie e Il Messaggero trecento. In tutto mille. Da Roma chiamarono un bravo giornalista ascolano, Carlo Paci, e gli diedero carta bianca, purché recuperasse lo svantaggio. E tra le tante cose che gli vennero in mente ci fu quella dei cosiddetti “ritratti alla città”, cioè Carlo Paci mi incaricò di fare il ritratto agli ascolani in qualche modo in vista. Ogni giorno Il Messaggero pubblicava in fondo alla pagina una striscia suddivisa in quindici rettangoli, e in ogni rettangolo c’era un profilo. Si procedeva per gruppi. Per esempio, oggi facciamo i camerieri, domani quelli della Cassa di risparmio. Avevo mezz’ora di tempo. Paci telefonava, diceva: guardate, domani verso le tre viene Pericoli, per favore dategli una mezz’oretta… I quindici prescelti si sedevano di fronte a me, stavano in posa due minuti, io schizzavo il profilo e via. Se non li pigliavi erano guai, perché la seduta si svolgeva davanti a tutti gli altri e non sopportavo di fare figuracce. In questo modo imparai a pigliare le facce. In ogni faccia c’è un particolare che la caratterizza. Se lo prendi, puoi fare del viso tutto quello che vuoi. Mettergli un naso finto, tre orecchie, baffi, barba. Non importa: la faccia è quella e quella resterà. A quell’epoca studiavo Legge come aveva voluto mio padre, e col lavoro per Il Messaggero lo aiutavo a pagarmi l’università a Urbino. Tanto contrario al disegno non era più. Purché, naturalmente, facessi l’avvocato. Lui era segretario comunale. Segretario comunale di Colli del Tronto, provincia di Ascoli Piceno. In effetti, non mi si aprivano che due carriere: o avvocato o segretario comunale in un comune, si sperava, un po’ più grande di Colli del Tronto. […] Insomma, mancavano quattro esami alla laurea e mi dissi: qui, se mi laureo, è finita. Mollai tutto e scappai a Roma. […] All’Espresso guardavano e dicevano: non c’è male, non c’è male. E dopo questo “non c’è male” non succedeva niente. Decisi di ripartire, abbastanza deluso, ma un giornalista, non mi ricordo più chi, mi disse: manda un disegno piccolo a Zavattini, sai Zavattini raccoglie i mini-quadri, tu fagli un 6x6, chissà, magari risponde… Feci questo 6x6 e glielo mandai. Zavattini rispose subito: vieni a Roma a trovarmi. Presi il pullman e tornai a Roma con la mia cartella. Zavattini vide. Esclamava: “Eh, ma che bravo! Eh, ma tu sei un artista! Ma che Legge e Legge! smetti subito di fare Legge, sai”. Poi disse: tu devi andare a Milano. Detto fatto, mi fece un biglietto di presentazione per Giancarlo Fusco. Io avevo 90 mila lire in tasca. Con questi soldi e il biglietto andai a Milano. Era il 1961. Fusco mi fece perdere un sacco di tempo. Ci si divertiva, si usciva la sera, ma di presentarmi a qualcuno non se ne parlava. Finalmente una notte, era mezzanotte passata, dice: beh, andiamo da Rozzoni. Rozzoni era il vicedirettore del Giorno. Pure lui disse che le cose che facevo non erano male. E mi fece cominciare. Con un’illustrazione per una storia di gangster scritta da Fusco. Era una cosa lontana dal mio gusto. Però… Feci qualcosa di più congeniale quando dovetti illustrare “I racconti della domenica”. C’erano le prime Cosmicomiche di Calvino, racconti di Pasolini, Bassani, Primo Levi e tutti gli altri che allora scrivevano su quel magnifico quotidiano. Mentre disegnavo dipingevo anche». «Intanto succede qualcosa. Da Parma arriva Emanuele Pirella. Vuol fare l’umorista, non sa dove dormire. Pericoli ha un letto in più. Una sera Nele torna contento e perplesso: gli hanno offerto la pubblicità. “Tanti soldi, non so se accettare…”. Controvoglia diventa il profeta italiano nel monopolio americano, ma senza tradire l’invenzione ironica che salda la loro amicizia. Nasce il duo Pericoli-Pirella: accompagna il sorriso di due generazioni. […] Cominciamo i problemi: Saragat e Fanfani non si toccano. Il Giorno non se la sente di rischiare, e lo “scavezzacollo” se ne va. Nel ’70 ecco il primo libro, Contessa che è mai la vita, interpretazione-rivincita sulla cultura impagliata dei banchi di scuola» (Maurizio Chierici). «Facemmo presto a conoscerli, Pericoli e Pirella. […] Seguivamo i loro “grafemi con scrittura” su Linus, ne leggevamo le recensioni in forma di striscia allestite per il Corriere, registrammo il debutto di quella rubrica “Tutti da Fulvia sabato sera” che per decenni, fino alla morte […] di Pirella – passando dal Corriere alla Repubblica – avrebbe fatto dei salotti di Milano, e delle dame che vi imperano, un ilare segnalatore di costume. Quando nel ’76 apparvero in volume le storie del Dottor Rigolo, direttore d’un immaginario quotidiano che P & P definivano “dipendente”, fu giusto celebrare la nascita in Italia del "romanzo a fumetti". […] Ormai Pericoli disegnava, e anche tanto, per L’Espresso. […] Si arriverà a Giovanni Leone, sui cui destini di capo dello Stato le copertine bamboccianti del nostro amico influiranno non meno delle polemiche di Camilla Cederna o di Gianluigi Melega. Il Leone vestito da marinaretto sullo yacht dei suoi amici affluenti è ormai, comunque la si pensi, un promemoria d’epoca» (Nello Ajello). «Sono stato per circa dieci anni, dal 1974 al 1984, un artista di una galleria importante di Milano: lo Studio Marconi. Ero legato mani e piedi alle sue decisioni. Con qualche piccola deroga. Nel senso che potevo anche vendere personalmente qualche lavoro, a patto di passare una percentuale alla galleria. […] Andai da Giorgio Marconi per concordare a quanto doveva ammontare. A lui non stava bene quello che proponevo. Ma non è questo il punto. Il punto è come reagì. Mi disse: tu qui vali, se noi decidiamo che tu valga, altrimenti non sei nessuno. Capisci? Ero diventato una specie di “stipendiato” il cui talento, ammesso che ci fosse, non dipendeva da me, ma da colui che a tutti gli effetti si proponeva come un padrone. […] Reagii da provinciale deluso. Andandomene e soffrendo tantissimo, perché lasciavo un luogo che avevo amato. […] Scoprii l’insincerità di quel mondo, nel cui uso delle parole si nascondeva qualcosa di detto male, di poco convincente e di molto più simile al raggiro che alla verità. […] All’inizio, il divorzio dallo Studio Marconi fu per me un trauma. In breve tempo compresi che potevo continuare a fare il mestiere di artista anche sui giornali, cosa che ho svolto per un certo periodo a tempo pieno. Poi, a cominciare dagli anni Novanta, ho ripreso a lavorare autonomamente» (Antonio Gnoli). «Pericoli considera fondamentale l’anno 1985, in cui Giorgio Soavi e l’Olivetti lo incaricarono di illustrare un libro. Lui scelse Robinson Crusoe. Ma fece una ricerca che andò oltre il libro e che fu raccolta in una ampia mostra al Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano. Qui i due Io dell’artista, quello che disegnava e quello che dipingeva, si incontrarono per la prima volta e si misero all’opera insieme. Il disegnatore prese subito a lavorare su Robinson, il pittore sull’isola. Presto i due Pericoli, che fino a quel momento s’erano ignorati e a mala pena sopportati, diedero corso a scambi ed effusioni. L’intesa s’è fatta da allora sempre più stretta. Chi ormai può più distinguere il disegnatore dal pittore?» (Giorgio Dell’Arti). «Per molto tempo ha sognato di lavorare per il teatro senza mai riuscire a trovare la giusta opportunità. Poi arriva il giorno in cui chiede a un amico di accompagnarlo in Germania in occasione di una mostra. Sulla strada del ritorno ascolta all’autoradio L’elisir d’amoredi Donizetti, che in quel periodo ama molto, e dice all’amico quanto gli piacerebbe farne le scene e i costumi. Tre mesi dopo il direttore dell’Opera di Zurigo gli chiede di realizzare proprio quel lavoro, e da quel momento iniziano le sue collaborazioni teatrali. Rifarà L’elisir per la Scala e al Piccolo Teatro firmerà le scene, i costumi e la regia de Le sedie di Ionesco» (Oreggia). Dopo aver realizzato una lunga serie di ritratti di intellettuali e artisti (tra i più celebri, quelli di Beckett, Calvino, Pasolini), pubblicati principalmente su la Repubblica, negli ultimi anni si è dedicato soprattutto ai paesaggi, anzitutto a quelli delle natie Marche, ma più recentemente anche a quelli delle Langhe. «Non si capirebbe la stretta connessione, che Pericoli mette in atto, tra la pittura del paesaggio e quella del volto se non si avesse chiaro il passaggio continuo dell’uno nell’altro. Disposti come fossero su un’isola, nascosti da un gioco di muri che in parte li separano dal resto delle opere, i volti ritratti ci appaiono come il necessario contrappunto del paesaggio. Non è casuale che Pericoli abbia per la prima volta forzato i confini del volto, dilatandolo, ingigantendolo, fino a trasformarlo in una singolare mappa geologica, del tutto simile al paesaggio. Sicché nei volti di Beckett, di Pasolini, di Saviano e degli amici che l’artista ha voluto ritrarre (Caracciolo, Scalfari, Calasso, Magris, Botta, Gregotti, Testori, Loi, Bassetti, Pollini), affiorano le medesime sinuosità e asprezze che ritroviamo nei suoi paesaggi» (Gnoli). «Sono superfici entrambi, sia i volti che i paesaggi, e sono mobili, anche se i cambiamenti di un paesaggio si notano meno, hanno il passo dei secoli. […] Parliamo di rughe per il volto e di "rughe" per il paesaggio, e sia per il volto che per il paesaggio possiamo parlare di stagioni, depressioni, tagli, scavi, cedimenti. Quando guardo la natura, mi viene spontaneo chiedermi perché lì c’è quella ruga, quella collina, quella forma di montagna; quale spinta le ha fatte emergere, nel modo in cui sono emerse. Esattamente come faccio con un volto» • Numerosi libri, per lo più raccolte delle sue opere. Tra gli ultimi: Scritture e figure (Skira 2017), Incroci (Adelphi, 2019), Sul Farsi del Mondo (Henry Beyle, 2020), Arte a parte (Adelphi, 2021), Un digiunatore di Franz Kafka (Adelphi, 2022), Ritratti di ritratti (Adelphi, 2023) • Un figlio di primo letto, Matteo, anch’egli disegnatore, e due gemelli (un maschio e una femmina) dall’attuale consorte • Grande passione per la pesca e per la lettura. «Quando leggo è come se nella mia testa si accendessero due schermi. In uno scorrono le parole; nell’altro le immagini. A volte i due schermi si sovrappongono e le storie finiscono col somigliare a dei film. A quel punto può scattare l’immaginazione» • «A sinistra dell’unghia del dito medio della mia mano destra si è formata una piccola cavità che accoglie e sorregge la matita o il pennello per tutto il tempo in cui lavoro. Un incavo, quasi uno scalmo che quegli attrezzi accoglie e tiene». «Una matita non si dovrebbe tenere in mano. Si dovrebbe avere in mano, dovrebbe essere nella mano, essere nelle dita. […] Una matita si muove bene quando non ci accorgiamo più di lei, come succede con le nostre dita. Quando diventa il sesto dito della nostra mano». «Per me la linea assieme alla ruota e al fuoco è una delle tre grandi scoperte o invenzioni primordiali. Cerco spesso di immaginare l’emozione dell’uomo che per primo fece un disegno. Ancora maggiore sarà stata l’emozione della prima persona che ha visto il primo disegno. Cosa avrà pensato? L’impressione deve essere stata fortissima, quasi uno shock. La linea in natura non esiste». «La linea è uno dei nostri strumenti di conoscenza più importanti: ci ha permesso di dare forma alle cose». «La libertà dell’artista, di cui si fa un gran parlare a sproposito, non è mai esistita. L’illibertà è la vera spinta produttiva. Non vorrei sostenere la mitologia […] della possessione, ma indubbiamente c’è qualcosa, chiamala pure forma, che limita il mio agire. Quando dipingo so di non essere libero di fare ciò che voglio. Non sono io che comando sul quadro, ma è questo che mi guida e mi determina». «Il lavoro dell’artista assomiglia a quello di un uomo il quale, davanti a una porta, trova finalmente, dopo molti tentativi, la chiave giusta per aprirla. Ma poi trova una seconda porta, ne trova una terza, una quarta, e si accorge che le porte da aprire sono infinite: non ci sarà mai l’ultima, quella rivelatrice. Questo continuo “cercare la chiave per aprire” è la cosa più bella della pittura. A differenza dei disegni fatti per, allo scopo di, un quadro è ogni volta una piccola storia che non sai come finisce. Questa imprevedibilità è affascinante. Anche se ricca di ansia. Ma in fondo l’ansia è il carburante, il motore di questo gioco senza fine» (a Luigi Vaccari).