12 ottobre 2024
Tags : Arturo Brachetti (Renzo Arturo Giovanni Brachetti)
Biografia di Arturo Brachetti (Renzo Arturo Giovanni Brachetti)
Arturo Brachetti (Renzo Arturo Giovanni Brachetti), nato a Torino il 13 ottobre 1957 (67 anni). Trasformista. Illusionista. Attore. Regista. Secondo il Guinness dei primati (dal 2002), è il trasformista più veloce del mondo, capace di cambiare completamente costume, scarpe incluse, in 2 secondi. «Il Fregoli dei nostri giorni» (Anna Bandettini). «Io sono un iperattivo e faccio tutto in fretta: mangio, dormo, lavoro e faccio l’amore sempre a gran velocità» (a Silvana Mazzocchi) • «“Sono nato a Torino, in un’epoca in cui la città era la Fiat, in un quartiere operaio e periferico buio e triste. Giocavo sempre con un teatro di burattini e mi ero costruito un palcoscenico girevole con il fondo di una torta. Inventavo i miei spettacolini ispirandomi alle foto dell’enciclopedia. Non avevo pubblico, ogni tanto mia sorella. Introverso com’ero, parlavo solo attraverso i burattini: ne avevo ventiquattro, facevo anche le voci”. Padre impiegato alla Fiat, nonno operaio nella stessa azienda, il bambino Arturo passa l’infanzia con la nonna e la sorella. […] “Eravamo quattro fratelli, due di noi vivevano con nonna e due con i miei genitori, il che non era tanto raro all’epoca”. Bravo a scuola: “Un po’ secchione, troppo. Così mio padre, che era molto religioso, a undici anni mi mandò in un istituto dei salesiani, il Don Bosco, fuori Torino”» (a Chiara Severgnini). «Volevi farti prete? “Era mio padre che ci sperava. Lui stesso fu sul punto di diventarlo. Poi la guerra fece sì che interrompesse gli studi al seminario. Gli era rimasto il desiderio. Dalle nostre parti, ma credo un po’ ovunque, si dice che se hai un figlio prete ti sei guadagnato un posto in paradiso”. […] “Ero un bambino buono e remissivo. E per uno come me, ti assicuro, non fu facile la convivenza con gli altri coetanei”. Perché? “Ero visto come un’entità stravagante. C’è una ferocia nell’adolescente che di solito non consideriamo. Ma che nel momento in cui si manifesta ha bisogno della vittima predestinata. Ecco, io ero quella vittima da insultare e bullizzare. E allora capisci che il seminario fu anche un modo per proteggermi”. Sei mai stato molestato? “No, mai”. […] Tu ancora bambino scopristi il trasformismo. “Fu grazie a don Silvio Mantelli, un salesiano che mi insegnò i trucchi rudimentali della prestigiazione. Ero incantato dalla grazia con cui faceva sparire e riapparire le cose. Mi disse: ‘Arturo, non è importante avere una vocazione religiosa, e temo che tu non l’abbia: l’importante è avere una vocazione’”» (Antonio Gnoli). «“A calcio ero una schiappa, quei giochini imparati sul libro di magia che padre Silvio Mantelli mi regalò mi riscattavano con gli amici. Ero l’unico a saper doppiare le chiavi. La notte con il cuscino creavo nel letto il cadavere di Arturo e poi scappavo con un amico a bere birra”. Sognava di fare il papa e il regista. “Il papa perché ha dei costumi bellissimi, il regista perché crea le scene, pensavo guardando in tv Antonello Falqui, con cui poi ho avuto l’onore di lavorare”» (Maria Teresa Veneziani). «All’inizio mi interessavano i giochi di prestigio. Poi sono passato al trasformismo». «Dai Salesiani c’era un deposito di costumi per il teatro, che per Don Bosco era un mezzo educativo, terapeutico. Presi gusto a travestirmi da cinese o indiano e scoprii che con una maschera avevo meno paura di andare in scena. A 16 anni montai il mio primo numero con tre costumi cuciti da mia madre» (a Edoardo Pelligra). «“Tutto iniziò una volta che, in collegio, mi cambiai i costumi in scena particolarmente in fretta. […] Un giorno don Silvio mi portò un libro su Fregoli (il grande trasformista vissuto dal 1867 al 1936, ndr) e mi disse: ‘Leggilo, non c’è più nessuno che sappia fare questi giochi’. Quel libro era pieno di fotografie”. La vita del ragazzo Arturo diventa un’altra. Si diploma maestro elementare, ma a insegnare non va nemmeno un giorno. “Più di un paio d’ore, i bambini, non li sopporto. Sarà perché il bambino sono io”. E, ancora adolescente, sa che diventerà un artista famoso: “Già a quindici anni presi a esercitarmi con gli autografi. Sapevo che mi sarebbe servito”» (Mazzocchi). «Quando dicesti a tuo padre “Voglio fare l’attore”, come reagì? “In realtà non glielo dissi. Era un incallito bigotto e non avrebbe compreso. Gli dissi però ‘Papà, voglio iscrivermi al liceo artistico’, e lui mi disse se non ero impazzito, in mezzo a tutti quei drogati e omossessuali. Presi un diploma e a 18 anni abbandonai la famiglia”» (Gnoli). Nello stesso periodo si sottopose a una rinoplastica: «Avevo una melanzana. Quando mi trasformavo nei personaggi femminili sembravo sempre la Callas». «Il giovane Arturo risparmia i primi soldi facendo il portiere d’albergo e si compra sei costumi. “Preparai un numero, bello, magico, veloce. Mi scelse Macario, ma per mia fortuna venni richiesto anche da Parigi. Macario morì due mesi dopo e Parigi mi cambiò la vita”. Approda al Paradis Latin. […] “Era un locale mitico, avevano uno spettacolo con quaranta persone, tutti si ispiravano a loro. […] Allora quel teatro era un laboratorio d’avanguardia, con gente geniale. Pensai: non mi prenderanno mai. Invece feci il mio numero e mi presero”» (Mazzocchi). Era l’aprile 1979. I primi tempi a Parigi furono duri, sul piano personale. «Di notte provavo i miei numeri e di giorno lavoravo come servo di scena, vivevo in un albergo da due soldi in cui ho preso la scabbia, per mangiare avevo sì e no l’equivalente di cinque euro al giorno… Avevo vent’anni, ero lontano dalla mia famiglia: qualche lacrima, l’ho versata. Ma ne è valsa la pena». «Anni di formazione e divertimento. Brachetti andava in giro per Parigi su una vecchia Citroën, i capelli blu, il trucco di scena e i vestiti da operetta. “Mi piaceva stupire, mascherarmi. Al Paradis Latin seppero andare oltre. Il direttore artistico, il regista Jean-Marie Rivière, mi fece fare da uno scenografo italiano un fondale alla Magritte. Grazie a quell’accorgimento il mio numero, anche se con i soliti sei costumi, si trasformò di colpo in un numero surrealista. Scoprii che potevo usare i miei trucchi e i miei travestimenti in un modo diverso, migliore”» (Mazzocchi). «“La mia vita è svoltata nel ’99 quando sono andato in Canada con il mio show”. I suoi genitori come hanno reagito? “Per papà non era un lavoro serio, mia madre è la mia fan numero uno: mi cuciva i costumi da ragazzo, è sempre ai miei spettacoli”» (Chiara Maffioletti). «Il successo è arrivato prima all’estero, poi in Italia. Un cervello in fuga? “Come tanti altri. In Italia pensavano che all’estero ci sarebbe stato sempre uno molto più bravo di me. Invece questa è un’arte italiana, che ho nel sangue. Fuori lo hanno capito subito”. […] Restando a teatro, cosa ha imparato lavorando con Gaber? “Il perfezionismo maniacale. Mi disse: ‘Nel one man show, qualsiasi cosa tu proponga al pubblico, la prendono per vera’. Per questo sul palco resto persona, non solo personaggio”. Con Ugo Tognazzi? “Erano gli ultimi sei mesi della sua vita, facevamo M. Butterfly. Mi meravigliavo della sua ansia da prestazione verso un pubblico che, ormai, pretendeva di ridere con lui. Oggi lo capisco”. E con Aldo, Giovanni e Giacomo? “Quando sono insieme hanno un età media di 14 anni (ride), e io sono il maestro elementare. Mi hanno regalato fiumi di risate, soprattutto durante I corti, quando improvvisavamo cose di una volgarità galattica”. Passando alla tv: ci arriva nel 1985 con Al Paradise di Antonello Falqui… “L’ultimo Cecil DeMille della televisione italiana. Per i varietà del sabato sera ci faceva provare anche dieci giorni, senza margini d’errore. Era la mentalità del cinema applicata al piccolo schermo. Ora non guardo più la tv”. Woody Allen ha detto di essere un tuo fan… “Lo incontrai nel Natale del 2005. Mi inondò di complimenti, offrendosi come padrino per il mio spettacolo a New York. Penso che sia un genio: la stima è reciproca”» (Chiara Ingrosso). Negli ultimi anni, ai suoi spettacoli di trasformismo e illusionismo (da ultimo Solo, che porta in scena con grande successo dal 2018) ha affiancato altre esperienze teatrali, tra cui la partecipazione all’allestimento di Il barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini curato da Rolando Villazón per il Festival di Salisburgo nell’agosto 2022 («Io sono un vecchio magazziniere che, negli anni Trenta, trova in un angolo una vecchia pellicola, Una noche a Sevilla, la proietta sul muro, e lì tutto si anima. I protagonisti diventano vivi, escono dalla finzione, io sono complice e vittima di questo mondo a parte. […] Io non canto e nemmeno parlo, ma faccio tante gag, come Mr Bean dentro un’opera») e, dall’ottobre 2023, il ruolo di coprotagonista (insieme a Diana Del Bufalo), oltre che co-regista (insieme a Luciano Cannito), nello spettacolo musicale Cabaret di John Kander. «“Me lo sento addosso: il film è uscito nel ’72 e io nel ’79 mi trovai per due settimane in camerino con Joel Grey, che aveva vinto l’Oscar per il ruolo di cui facevo il playback. Poi nell’83 ho incontrato il regista Bob Fosse. Ho vissuto gli anni scintillanti del cabaret vero”. […] Si travestirà anche qui? “Sì. C’è una scena in cui tutti cantano un inno e io esco come un Hitler nano che poi diventa un diavolo che abbraccia il mondo”» (Elvira Serra) • Un’autobiografia: Uno, Arturo, centomila. Vita, magie e salti mortali dell’uomo dai mille volti (Rizzoli, 2007) • «Il momento che l’ha emozionata di più sul lavoro? “Quando mi hanno dato il premio Molière per L’uomo dai mille volti, nel 2000 a Parigi. Non c’era nessuno della mia famiglia perché non mi aspettavo di vincerlo”. È amatissimo in tutto il mondo. La sua statua di cera è in quattro musei. “Ora in tre: a Parigi, a Praga e in Svizzera. A Montréal ha chiuso: l’ho saputo tardi, altrimenti l’avrei acquistata”. Pensa di essere apprezzato più all’estero che in Italia? “Ma no, mi sento molto appagato. L’unica cosa che mi fa un po’ di tristezza è che la televisione italiana, tutta, al di là di grandi complimenti, non mi ha mai proposto un one man show”. E se glielo offrisse una piattaforma a pagamento? “Bello! Però, anche lì… Ci sono colleghi che hanno fatto molto meno di me, venduto molti meno biglietti in Europa, e hanno i loro speciali”» (Serra) • «Come vive l’amore un trasformista? “Nel passato non mi sono fatto mancare nulla: mi piace dire che, se la donna è l’altra metà del cielo, io, il cielo, l’ho visto tutto intero. […] Da buon trasformista, sono geneticamente infedele”» (Lavinia Farnese). «È innamorato? “Sì, da tredici anni [intervista del 2023 – ndr]”. Di un uomo o una donna? “Non glielo dico, altrimenti lo scrive. Negli anni ’70-’80 la sessualità era molto più libera di adesso e tutti abbiamo sperimentato un po’ tutto, quindi anche io ho avuto delle relazioni sia di qua che di là”. […] Le dispiace non avere avuto un figlio? “Per niente. Ne ho sentito il bisogno geneticamente a 30 anni. Però mi rendo conto di averne tanti artistici: sono i ragazzi ai quali do consigli, che incoraggio nella carriera. Penso a Gaetano Triggiano, Luca Bono, Filiberto Selvi. Sono i figli che ho scelto”» (Serra) • «Suo papà la voleva prete: e sua mamma? “Mi voleva bene. Anzi, mi vuole bene. Il suo Dna, e il fatto che sembri giovanissima, mi ha aiutato a mentire sulla mia età, […] fino all’altro ieri”» (Alessandra Comazzi). «I suoi familiari lavorano tutti con lei? “Ora solo mio fratello: mi fa da commercialista. Così, se mi frega i soldi, comunque finiscono ai miei nipoti”» (Serra) • «Dalla sua casa di Torino domina la città: ha videocamere puntate sulla Mole, sul Monte dei Cappuccini, sui tetti. “Ho una vista straordinaria di una Torino da cartolina. Quando sono all’estero in tournée mi collego con casa mia: vedo il tempo che fa. Mi aiuta a superare la nostalgia”» (Donatella Ferrario). «La casa di Arturo Brachetti: “Ha i passaggi segreti, la libreria che gira, l’acqua luminosa, i quadri che parlano, i muri che si spostano. È piena di scemenze che mi corrispondono”. Quando va in giro si veste da “rocker, prete o professore di filosofia”» (Renato Franco) • «“Mi considero blandamente ateo”. Blandamente? “Penso che esista un qualche disegno soprannaturale. Mi immagino la natura come un grande architetto. O la matematica che tutto armonizza. Da qualche parte un’infinita intelligenza ci deve pur essere”. E se non ci fosse, se fossimo davvero soli? “Beh, ci sarebbero sempre il sogno, la magia, l’illusione. La scienza. Non è male pensare a Dio come a un’entità dotata di superpoteri, un illusionista capace di affascinarci con i suoi trucchi”» (Gnoli) • «Nel 2004 ho sofferto di ansia: era un anno bellissimo, teatri pieni, soldi, successo, ero persino innamorato. Ma non dormivo, mi veniva la tachicardia. Sono andato dallo psicologo – è utilissimo andarci, lo consiglio –, e lui mi ha detto: “Hai realizzato i tuoi sogni, sei arrivato in cima alla montagna e ti chiedi: tutto qui? Allora devi scendere, aspettare che le nubi si diradino: vedrai un’altra montagna e la scalerai di nuovo”. […] Il più bel giorno è nel futuro. E deve ancora venire». «Ho l’ansia della delusione. Intorno a me si è creato una specie di mito, la gente quando mi viene a vedere si aspetta sempre qualcosa di sorprendente e di eccezionale. Insomma, non è facile essere il più bravo del mondo» (ad Angela Calvini) • «È un po’ narciso? “Come tutti i grandi timidi, quando sono uscito dalla timidezza, sì, sono diventato un po’ narciso”» (Comazzi) • «Leggi molto? “Ho dei libri che porto nel cuore”. Tipo? “Il piccolo principe di Saint-Exupéry, Profumo di Süskind, Il nome della rosa di Eco”» (Gnoli) • «“Sono malato di serie tv: Netflix è una droga, e io ho uno schermo da 65 pollici”. Che cosa le piace? “Le regole del delitto perfetto, Penny Dreadful, The Frankenstein Chronicles. Ricostruzioni pazzesche, che il cinema si sogna, ormai”. Niente di italiano? “Ma no, amo ascoltare la versione inglese, con i sottotitoli. E amo il ritmo, che la fiction italiana non ha”» (Comazzi) • «Mi piace guidare: quando sono in autostrada il cervello viaggia di più, ho l’illusione di progredire, di essere proiettato verso il futuro. […] A Parigi, dove sono di casa, vado sempre in auto; a volte anche a Londra: impiego diciassette ore da Torino. Ma ho un senso di grande libertà, e molte delle mie idee per gli spettacoli nascono proprio in quei momenti» • «Il suo lavoro prevede una forma fisica perfetta: come fa? “Genetica, 30%: abbiamo dovuto fermare mia mamma che voleva lanciarsi col deltaplano. Stile di vita, dieta, le mie verdure, il pesce bollito e la ginnastica, sempre: 40%. L’ultimo 30%: decidere, con la testa, di avere 20 anni di meno. Infatti non ho amici coetanei: mi parlano solo di prostata”» (Comazzi). «Come un atleta, non posso permettermi di perdere la forma. Le mie sole debolezze sono i dolci. Cerco di resistere, ma per una meringa con panna potrei giocarmi il ciuffetto» (a Giuseppina Manin) • «Come è nato il suo ciuffo? “Un’eredità di Shakespeare: facevo Sogno di una notte di mezza estate. Ero il folletto Puck e serviva una pettinatura particolare: mi sono lasciato il ciuffo, ma mi dava fastidio e ci misi il gel. Quando andai a Parigi con il mio show, iniziarono a chiamarmi l’italiano con la Tour Eiffel in testa: il ciuffo era diventato un sotterfugio per cui la gente mi riconosceva. È come se da lì avessi un superpotere”» (Maffioletti) • «Quanto impiega per un cambio d’identità, quanto per prepararlo? “Due secondi. Forse tre. A volte anche uno e mezzo. Ma per un’esibizione posso lavorare anche un anno”. […] “Ho due angeli custodi: uno per i vestiti, uno per le parrucche. […] È come nella Formula 1: mi cambiano le ruote e mi rimettono in pista, trasformato, nel tempo del lampo”» (Farnese) • «Instancabile, negli anni ha perfezionato anche l’arte del mimo, la pittura su sabbia, le ombre cinesi. Di recente si è buttato sul canto. […] Il fil rouge della sua carriera? “La curiosità”, spiega. […] Si è fatto da solo? “Non solo: sono diventato il sogno di me stesso. Costruendomi un pezzo alla volta ed esplorando pianeti artistici sempre nuovi”» (Severgnini) • «Tutto il mio lavoro, forse tutta la mia vita si appoggia sul punto di vista. Per andare da A a B si può passare da M: nessuno ci pensa, ma io, su quello spiazzamento, costruisco un universo» (a Maurizio Crosetti) • «Il 70 per cento della mia vita è finzione. Sono sincero solo sulle cose serie, quando la menzogna cambierebbe il corso degli avvenimenti. Per il resto ritengo che l’illusione sia necessaria» • «Sono un quindicenne imprigionato nel corpo di un sessantenne». «Sono un Peter Pan cui piace fantasticare, ma che accetta di essere in parte razionale: mentre il bambino vola, la sua ombra pensa a tutto, scarpe, costumi, tele, manifesti. L’io regista» (a Laura Martellini). «A invecchiare al posto mio, ci pensa mio fratello. Si occupa delle cose pratiche, ha fatto famiglia e figli. Io mi sono tenuto i sogni» • «Mi piacerebbe molto recitare in un film senza dovermi cambiare velocemente. Interpretare, almeno una volta nella vita, un ruolo in cui la metamorfosi avviene nell’anima» • «Dove tiene i costumi? “In un magazzino fuori Torino: sono 450, ogni tanto vado a respirare la storia che hanno catturato. Alcuni li ho indossati una volta sola. Li conservo tutti perché sono pieni di trucchi”. A quale è più affezionato? “Ai frac bianchi, che uso nel finale dei miei spettacoli, fatti da diverse sartorie per il mondo. Ne ho sei o sette. […] Il primo è tutto liso. Quando morirò voglio essere sotterrato con uno di quelli”. Ha già scelto l’epitaffio? “Il più bello, me lo ha fregato Leopoldo Fregoli, il primo trasformista: ‘Qui compì la sua ultima trasformazione’. Il mio sarà: ‘Si è trasformato in qualcosa di meglio’”» (Serra) • «La morte non mi fa paura. Con i miei personaggi ho vissuto mille vite, messo in pratica i sogni più folli. Con la morte gioco da sempre. Dovesse presentarsi, faccio un attimo a trasformarmi in qualcun altro e lasciarla con un palmo di naso. Son più svelto di lei».