19 ottobre 2024
Tags : Kamala Harris (Kamala Devi Harris)
Biografia di Kamala Harris (Kamala Devi Harris)
Kamala Harris (Kamala Devi Harris), nata a Oakland (California, Stati Uniti) il 20 ottobre 1964 (60 anni). Politico (Partito democratico). Vicepresidente statunitense (dal 20 gennaio 2021). Candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti alle elezioni del 2024. Ex senatrice federale per la California (2017-2021). Magistrato. Ex procuratore distrettuale di San Francisco (2004-2011) e procuratore generale della California (2011-2017). «Ogni volta che ho corso, ero la prima a vincere. La prima persona di colore. La prima donna. La prima donna di colore. Ogni volta» • Ascendenze afro-giamaicane e indiane tamil (della casta dei bramini). «Harris è la figlia di due studenti stranieri che in quegli anni inseguivano il sogno californiano: Donald Harris, giamaicano e lontano discendente del proprietario di una piantagione, era arrivato a Berkeley nel 1961 con una borsa di studio per un dottorato in Economia; Shyamala Gopalan, una ragazza indiana figlia di un alto funzionario di Madras, era una studentessa precoce che a 19 anni, dopo aver completato il primo ciclo di studi all’Università di Nuova Delhi, era riuscita a farsi ammettere a Berkeley, all’insaputa dei genitori. […] I genitori lasciarono partire Shyamala, ma con la promessa che sarebbe tornata e avrebbe accettato un matrimonio combinato. […] Fu la politica, nell’autunno del 1962, a farli incontrare. All’epoca Berkeley non era ancora la capitale della controcultura, ma la contestazione stava già germogliando e il partito delle Pantere nere muoveva i primi passi. Nella sede dell’organizzazione degli studenti afroamericani i giovani discutevano di discriminazione e decolonizzazione leggendo gli autori neri che non trovavano spazio nei programmi universitari. Una sera Donald Harris tenne un discorso sulle disuguaglianze economiche, e Shyamala Gopalan, con indosso il sari, gli si avvicinò al termine del suo intervento. Meno di un anno dopo, nel luglio 1963, si sposarono. […] A 26 anni Shyamala Gopalan discusse la sua tesi di dottorato in Endocrinologia e pochi mesi dopo diede alla luce la prima figlia» (Corine Lesnes). «Ebbero due figlie, Kamala (che vuol dire “fior di loto” in sanscrito) e Maya. La famiglia di lei non prese bene il matrimonio, e rimase ancora più scandalizzata otto anni dopo, quando Gopalan chiese il divorzio» (Alessio Marchionna). «I suoi genitori divorziarono quando Kamala aveva sette anni. E la madre fece crescere lei e la sorella Maya in un bilocale al secondo piano in una piccola casa a Berkeley. Da bambina, frequenta la chiesa evangelica battista e il tempio hindu» (Riccardo Barlaam). «Nel 1970 Kamala Harris era tra gli studenti coinvolti nel programma del busing, pensato per limitare la segregazione razziale tra le scuole: ogni mattina bambini dei quartieri poveri venivano portati in autobus nei quartieri bianchi, e viceversa. Due mondi che si scontravano brutalmente. Quando Maya e Kamala andavano a Palo Alto per incontrare il padre, che insegnava all’Università di Stanford, i bambini del quartiere si rifiutavano di giocare con loro, per ordine dei genitori. […] Nel 1972 Donald Harris era stato il primo afroamericano a vincere una cattedra alla facoltà di Economia di Stanford, anche grazie a una petizione degli studenti che chiedevano la presenza di un insegnante marxista tra i docenti» (Lesnes). «La giovane Kamala, seguendo gli spostamenti professionali della madre, frequenta le scuole superiori a Montréal, in Canada. Dopo il diploma, di nuovo negli Stati Uniti, viene ammessa alla Howard University, storico college prestigioso per le élite nere a Washington D.C., dove studia Scienze politiche ed economiche. Continua gli studi in Legge a San Francisco, dove si laurea nel 1990, e subito comincia a lavorare come stagista a Oakland, nell’ufficio del procuratore distrettuale della Contea di Alameda» (Barlaam). «Sorprendendo tutti quelli che l’avevano vista crescere tra le contestazioni di Berkeley, non ha scelto la difesa delle vittime, ma quella della legge. In seguito ha dichiarato che in quel momento il suo obiettivo era umanizzare il sistema di giustizia penale. Quando era ancora una stagista, Harris capì fino a che punto una singola persona poteva fare la differenza. Era un venerdì sera – racconta nella sua biografia – e la squadra antidroga aveva arrestato per sbaglio una ragazza che si trovava per caso nella casa dove era in corso la perquisizione. Rischiava di dover restare in stato di detenzione fino al lunedì successivo senza nemmeno sapere se i suoi figli fossero stati avvertiti dell’arresto. In quell’occasione Harris fece di tutto per far arrivare in tribunale un giudice che potesse scarcerarla. “Fu un momento determinante della mia vita”, ha scritto» (Lesnes). «A 29 anni Harris dopo la laurea in Legge ebbe una relazione con il sessantenne Willie Brown, il politico nero più importante della sua generazione, due volte sindaco di San Francisco, presidente dell’Assemblea della California, pioniere dei diritti dei neri e dei gay» (Michele Masneri). «Il 29 novembre 1994, nelle pagine del Los Angeles Times, […] il giornalista Dan Morain rivelò che Brown […] aveva nominato Harris nella commissione di vigilanza dei contratti con le assicurazioni sanitarie, con un salario di 72 mila dollari all’anno. Secondo Morain era la seconda volta che promuoveva la sua compagna dell’epoca. Harris, infatti, aveva già ottenuto un incarico (retribuito con 97 mila dollari all’anno) presso l’ufficio per la disoccupazione» (Lesnes). «Nel 1998 fu incaricata da Terence Hallinan, procuratore di San Francisco, di dirigere la divisione affari penali. Harris decise di trasferirsi nel centro di San Francisco e seguire il consiglio del suo ex mentore Willie Brown (avevano interrotto la loro relazione sentimentale nel dicembre 1995) per entrare nel giro che contava a San Francisco: avvicinarsi al mondo delle associazioni, della cultura e della beneficenza. […] In quel periodo l’attuale vicepresidente degli Stati Uniti ha costruito una rete di contatti che la sostiene ancora oggi» (Lesnes). «Nel 2003 Harris viene eletta procuratore di San Francisco con il 56,5% dei voti: è la prima volta per una donna di colore. Per poi salire di grado ed essere eletta per due mandati procuratore generale dello Stato della California» (Barlaam). «Durante la sua prima campagna elettorale, per diventare procuratore a San Francisco, era considerata molto di sinistra, una che non aveva paura di affrontare i poliziotti se pensava che avessero fatto qualcosa di sbagliato. Ma poi c’è stata una svolta, che spiega il suo appiattimento come procuratore negli anni successivi» (Daniele Raineri). «Tutto è cominciato il 10 aprile 2004, quando Isaac Espinoza, agente di polizia di 29 anni, è stato ucciso nel quartiere di Bayview. Fedele alle promesse fatte durante la campagna elettorale, Harris ha deciso di non chiedere la pena di morte per il ragazzo che aveva sparato, scatenando la rabbia dei poliziotti, che si sentivano traditi, e di molti politici, compresi alcuni democratici» (Lesnes). Quel frangente «segnò il momento della spaccatura fra la polizia di San Francisco e il procuratore, che in tutte le candidature successive non ricevette mai l’endorsement dell’associazione degli agenti. Negli anni successivi Harris diventerà molto cauta quando si tratta di prendere posizione. E spesso la cambierà» (Raineri). «Harris si definisce un “procuratore progressista”: “Per me, essere un procuratore progressista è agire su questa dicotomia. È capire che, quando una persona si prende la vita di un altro, o un bambino viene molestato o una donna violentata, gli autori meritano gravi conseguenze. Questo è un imperativo della giustizia. Ma è anche capire che l’equità è scarsa in un sistema giudiziario che dovrebbe garantirlo. Il compito di un pubblico ministero progressista è […] riconoscere che non tutti hanno bisogno di una punizione, che ciò di cui molti hanno bisogno, chiaramente, è aiuto”» (Barlaam). Ciononostante, «alcuni la definirono una “poliziotta”. Da procuratrice distrettuale di San Francisco si era vantata di aver portato in tre anni la percentuale di condanne dal 53 per cento al 67 per cento, il dato più alto del decennio. Inoltre, si era schierata a favore di una legge che prevedeva l’incarcerazione dei genitori se i figli saltavano abitualmente la scuola. Come procuratrice generale della California si era opposta alla scarcerazione anticipata dei detenuti condannati per crimini non violenti, sostenendo che gli istituti carcerari rischiavano di perdere “un’importante fonte di manodopera”. Allo stesso tempo, come procuratrice Harris ha sostenuto più volte le rivendicazioni dei lavoratori, durante la crisi finanziaria ha difeso le persone che rischiavano un pignoramento e ha appoggiato l’aumento del salario minimo a 15 dollari all’ora» (Marchionna). «Nel 2014 Harris si esprime in favore del matrimonio gay e riceve segnali di attenzione da parte di Obama come possibile futuro giudice della Corte suprema. Nel 2016 conduce una trionfale corsa per un seggio senatoriale a Washington in rappresentanza della California. Vince con il 62 percento delle preferenze» (Stefano Pistolini). «Come senatrice, Harris ha subito dichiarato guerra a Donald Trump e si è imposta sul palcoscenico nazionale con i suoi interrogatori all’ex ministro della Giustizia Jeff Sessions, che […] l’hanno accreditata davanti al pubblico democratico a caccia di volti nuovi per il partito. Da qui la decisione di provare a correre per la Casa Bianca: un tentativo che non ha avuto successo, anche se si era imposta come una delle rivali più agguerrite di Biden nel corso delle primarie [in realtà, nella fase preliminare – ndr]. È rimasto negli annali l’aspro confronto fra i due nel corso di uno dei dibattiti, durante il quale Harris rinfacciò al suo futuro capo di essersi compiaciuto della collaborazione con due senatori segregazionisti negli anni ’70. Non contenta, Kamala continuò raccontando di conoscere una ragazzina nera che per fortuna ebbe la possibilità di andare in una scuola migliore grazie al servizio di scuolabus istituito per le minoranze che vivevano nei quartieri più disagiati, servizio al quale – ricordò – il senatore Biden si era opposto: “Quella ragazzina ero io”» (Serena Di Ronza). All’epoca, tuttavia, «i bianchi dei ceti medio-alti misero i figli in scuole private che non partecipavano. La mescolanza colpì i genitori della classe operaia bianca, che videro il livello scolastico scendere. Se criticavano il “busing”, come a suo tempo aveva fatto Biden, venivano tacciati di razzismo. Rilanciare quell’accusa contro Biden molti decenni dopo era sleale. Così la Harris volle fare dimenticare la propria carriera politica, che l’aveva collocata nel centro moderato conservatore del suo partito» (Federico Rampini). «Ma i dibattiti successivi furono per lei disastrosi, e, incapace di evitare la dissoluzione del suo team elettorale, rinunciò alla candidatura prima dell’inizio delle primarie. […] Biden […] la scelse come vice senza farsi condizionare dall’affronto subìto» (Massimo Gaggi). «Biden aveva scelto la Harris per ragioni letteralmente estetiche: donna, cinquantenne e discendente da ben due minoranze etniche, indiana e afroamericana. Era l’esatto contrario del presidente, vecchio maschio bianco cattolico. Perciò era “rivoluzionaria” per definizione. La vera Harris non corrispondeva a quello stereotipo. […] La Harris si era prestata a una finzione corteggiando Black Lives Matter, #MeToo e tutte le frange radicali della sinistra. La sua biografia si prestava a tutt’altra narrazione: la storia dei suoi genitori è l’apoteosi di un American Dream costruito da élite di immigrati iperqualificati che diventano classe dirigente e adottano le regole del gioco anglosassoni; il contrario dell’attuale ideologia politically correct» (Rampini). In ogni caso, la scommessa si rivelò vincente, e alle elezioni presidenziali del 3 novembre 2020 la Harris conquistò al seguito di Biden la Casa Bianca, diventando la prima donna a ricoprire la carica di vicepresidente degli Stati Uniti. «Alla cerimonia dell’Inauguration Day, il mondo intero era più incuriosito, attratto, affascinato dalla vicepresidente Kamala Harris che dal suo presidente» (Rampini). L’idillio tuttavia era destinato a breve durata: nell’arco di pochi mesi, «è stata la prima ad affondare nei sondaggi e non ha mai smesso: fa peggio dello stesso Biden. È la più impopolare degli ultimi quattro vicepresidenti. I media hanno ribaltato la narrazione su di lei, […] ne parlano come di una incompetente (non studia i dossier), arrogante, a tratti isterica. Il sessismo abbonda nei commenti e lei se n’è lamentata con i suoi collaboratori, confidando che sarebbe stata trattata diversamente se fosse un maschio bianco. […] Ma è un dato di fatto il fuggi fuggi dal suo staff. […] Il crollo di Kamala ha un retroscena segreto, insito nelle divisioni nel Partito democratico. I media progressisti voltarono le spalle alla vicepresidente a giugno [2021 – ndr]. Galeotto fu il suo viaggio nell’America centrale. Biden le aveva delegato uno dei dossier più esplosivi: la crisi migratoria, la pressione dei profughi al confine sud. Il messaggio della Harris fu: aiutiamoli a casa loro. Usò slogan duri: “Restate, perché non vi accoglieremo”. Fu una missione difficile ma indispensabile. La Casa Bianca aveva bisogno di contrastare il messaggio estremista della sinistra “no border”, dopo che la leader radicale Alexandria Ocasio Cortez aveva preconizzato l’abolizione della polizia di frontiera. Tanto più con milioni di disoccupati e il Covid ancora in agguato, liberalizzare gli ingressi sarebbe stato un suicidio politico per i democratici. […] Quando la Harris si è immolata per questa causa, la sinistra del suo partito l’ha vista come una traditrice. Si è dissolto l’equivoco che aveva segnato la sua nomina» (Rampini). Non andò meglio negli anni successivi: nel complesso, «non è mai uscita dall’ombra di Biden e non ha mai bucato lo schermo» (Di Ronza). Quando, tuttavia, il 21 luglio 2024, oltre tre settimane dopo il disastroso dibattito televisivo con lo sfidante repubblicano Donald Trump (27 giugno), Biden si rassegnò a rinunciare alla candidatura democratica alle elezioni presidenziali del 5 novembre, esplicitò contestualmente il proprio sostegno alla candidatura della sua vice, sulla quale gradualmente conversero tutti i maggiorenti del Partito democratico, tra il curioso entusiasmo di gran parte degli organi d’informazione progressisti che fino a poche settimane prima non avevano esitato a denunciarne l’inadeguatezza. Nelle settimane successive, anche grazie alla buona prova data durante il dibattito televisivo con Trump del 10 settembre, la Harris ha visto progressivamente crescere i propri consensi, tanto da riaprire di fatto la sfida: non tanto, tuttavia, da apparire la favorita. «L’acrobazia di Harris consiste nel presentare se stessa come la novità, il cambiamento, quasi fosse lei all’opposizione, facendo leva sulla sua età più giovane e sul fatto che Trump “è il passato” in quanto ha già occupato la Casa Bianca per un mandato. […] Kamala è apparsa vaga e non del tutto convincente quando ha giustificato le tante giravolte dicendo che comunque “i miei ideali non sono cambiati”. È una frase che lanciò in pasto alla base democratica durante la convention di Chicago, e il pubblico amico si accontentò. Gli elettori moderati e indecisi potrebbero nutrire il sospetto che cambierà ancora posizione, una volta insediata alla Casa Bianca» (Rampini) • Sposata dal 2014 con Doug Emhoff, avvocato ebreo con due figli dal primo matrimonio, conosciuto l’anno prima grazie a un appuntamento al buio • Ottimo il rapporto personale con Obama. «Alcuni azzardano l’esistenza di una simpatia particolare tra i due, anche se l’ex presidente è stato costretto a scuse nei suoi confronti quando la definì “la più bella procuratrice generale del Paese”» (Francesco Semprini) • «Harris è stata criticata quando si è definita afroamericana: nera ma di origine caraibica, secondo alcuni non fa parte dell’etnia che discende dalla tragica deportazione degli schiavi dall’Africa. Quanto alla religione, Kamala è una cristiana appartenente alla chiesa battista nera, ma è stata educata dalla madre ad assorbire anche elementi della cultura induista, mentre ora è a contatto con l’ebraismo del marito» (Gaggi) • «A seconda di coloro a cui lo chiedete, Kamala Harris è una Hillary Clinton alla moda o una Beyoncé politica» (Hannah Giorgis). «Divisa tra voglia di apparire law & order, dura contro i criminali, e liberal capace di comprendere come povertà e discriminazioni nei ghetti riempiano le galere. […] Nel libro Smart on Crime, pubblicato nel 2010, Harris minimizza il razzismo della polizia, scrivendo “è idea diffusa che le comunità povere, in particolare afroamericane e ispaniche, considerino le forze dell’ordine il nemico. In realtà, è vero il contrario: i non abbienti sostengono i poliziotti”, salvo mutare parere dopo le proteste 2020 per l’assassinio di George Floyd, strangolato dell’agente Chauvin a Minneapolis: “Troppi uomini e donne neri disarmati vengono uccisi in America. Troppi americani neri e latini incarcerati. La nostra giustizia penale ha bisogno di drastiche riforme”. Non chiedetevi dunque quale […] Kamala Harris, vedrete, se eletta, alla Casa Bianca. Dipenderà dalle circostanze» (Gianni Riotta). «Kamala è sempre apparsa una figura enigmatica. Incapace di incidere sui temi cruciali, abituata a rispondere anche alle domande più dirette con risposte prolisse e inconcludenti, è stata sbeffeggiata sui social per i sorrisi che troppo spesso diventano risate eccessive, sgangherate, fremiti di tutto il corpo. Ora cerca di dare un’immagine diversa, presidenziale. E può vantare anche una notevole esperienza in campo internazionale. Difficilmente basterà» (Gaggi) • «Mia madre aveva un motto: “Kamala, tu potrai essere la prima a fare molte cose, ma assicurati di non essere l’ultima”».