23 ottobre 2024
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Biografia di Ezio Mauro
Ezio Mauro, nato a Dronero (Cuneo) 24 ottobre 1948 (76 anni). Giornalista. Scrittore. Già irettore di Repubblica (dal 1996 al 2016). Già direttore della Stampa (1992-1996).
Titoli di testa «Comprare un giornale è un incontro».
Vita Nato a Dronero, «un posto di settemila abitanti, sul confine con la Liguria, un fondovalle verso la Francia, di una valle che però non ha uno sbocco, bisogna andarci a piedi se si vuole andare dall’altra parte. È l’unica valle italiana dove non c’è neanche un cartello pubblicitario, l’ho letto da qualche parte» [a Michele Masneri, Studio] • «Mio padre Edoardo e mia madre Olimpia avevano un negozio di abbigliamento. Ho un fratello, Ugo, che ha 7 anni meno di me» [a Francesca Bolino, Rep] • «La passione per il giornalismo è nata leggendo La Stampa. La appoggiavo sul divano con il corpo del giornale sul cuscino e le pagine già lette sulla spalliera: il formato era molto più grande di oggi. A dieci anni leggevo lo sport e poi via via divoravo tutto. In particolare, gli editoriali di Vittorio Gorresio, Carlo Casalegno, Alberto Ronchey e avevo un’enorme sbornia per Giampaolo Pansa e i suoi attacchi» [ibid.] • «A undici anni, ricorda, vedeva l’insegna de La Stampa al palazzo di Via Marenco a Torino. “Mi emozionava guardare quella scritta luminosa”» [Amedeo Gasparini, Osservatore] • «Alle medie feci un giornale ciclostilato che fu subito sequestrato: non avevo chiesto il permesso, l’avevo fatto col mio amico figlio del tipografo del mio paese» [Gian Paolo Laffranchi, BresciaOggi] • A Dronero «ho fatto elementari e medie. E poi il collegio a Mondovì. Avevamo fatto la squadra di calcio di Dronero e giocavamo contro il resto del mondo. Ricordo che i primi due anni si tornava a casa solo a Natale e Pasqua, facevamo l’autostop con gli amici. Dalla finestra della mia camera cercavo un punto all’orizzonte dove mi immaginavo ci fosse Dronero» [Bolino, cit.] • «I miei migliori amici sono ancora quelli di allora: Stefano, Antonino, Gianni, Paolo, Beppe. Con loro abbiamo anche fondato un giornale, Drago (il simbolo della città è un drago nero) che quest’anno compie 50 anni [nel 2022, ndc]. Ha continuato a uscire grazie alla generosità di Gianni Romeo, l’unico giornalista in carne ed ossa che conoscevamo» [ibid.] • E dopo il liceo, Torino: «Era il 1967. Mi sono iscritto a Legge e sono andato ad abitare con alcuni amici prima in via Campana e poi in via Ormea. Andavamo a pranzo, come molti altri studenti, allo Scudo di via Galliari, pagavamo 650 lire a pasto. Era una meraviglia quel mondo fatto di incontri, scambi, persone. E ho assaggiato l’indipendenza» [ibid.] • «Dopo i fatti di Avola e Battipaglia si discuteva se fare assemblea o lezione. Abbiamo votato, io ero per l’assemblea. Ma eravamo in minoranza. Poi è entrato in aula Bobbio, ha gettato la cartella sulla cattedra e ci ha chiesto: “Avete 18 anni, con tutto quello che è successo non avete niente di meglio da chiedermi che farvi la lezione?”» [ibid.] • «Primo esame, Filosofia del diritto con Bobbio. Ricordo, tra i docenti, Leopoldo Elia di Diritto costituzionale, Mario Allara che era il rettore e insegnava Diritto privato. Gustavo Zagrebelsky, allora giovane assistente di Diritto costituzionale: non avrei mai pensato che saremmo poi diventati amici per la pelle. E Gastone Cottino, diritto commerciale» [ibid.] • «Con Bobbio ho avuto un confronto continuo. Negli anni in cui ero a Mosca ci scrivevamo spesso. E ho condiviso con lui i miei propositi quando sono diventato direttore de La Stampa. Gli dicevo quanto fosse per me importante l’autonomia della politica. Ragionavamo insieme su nuovi collaboratori». Per esempio? «Eravamo d’accordo su Falcone: l’ho raggiunto a Palermo e gli ho parlato di Bobbio. Il giudice desiderava conoscerlo di persona. Così, quando è venuto a Torino nel 1992, l’ho portato a casa del professore. Ed è stato, a dire il vero, un singolare incontro tra due grandi muti» [ibid.] • E alla Gazzetta del Popolo come è arrivato? «Grazie ad un medico torinese che veniva d’estate a Dronero ho conosciuto un giornalista sportivo, Alberto Fasano. Era il 1972. Lui poi mi ha presentato a chi si occupava delle cronache locali. Ricordo che mi avevano – e credo davvero malignamente – mandato a Fossano come prima prova. C’era una situazione piuttosto ingarbugliata. Un esponente della Dc, Beppe Manfredi, aveva rotto con il partito, fondato una lista indipendente e aveva iniziato a governare con l’appoggio dei comunisti. Insomma, in un feudo democristiano, in provincia di Cuneo, era una grande storia». E com’è finita? «Ho scritto tre pezzi. Dopo qualche giorno mi ha chiamato il caporedattore e mi ha detto: “I pezzi sono scritti benissimo. Ma la Dc ci fa una brutta figura e dunque non li pubblichiamo. Hai dimostrato però che ci sai fare. Ti richiamerò”. A quel punto ho pensato che mai mi avrebbero cercato. Invece mi hanno chiamato tre mesi dopo, d’estate, per sostituzione ferie, quindi da abusivo. Per mia fortuna assoluta mi hanno messo alla cronaca di Torino. Ricordo il mio primo pezzo, ho subito scoperto che un conto era leggere i pezzi dei grandi inviati, un altro era scrivere una notizia di cronaca a una colonna. Mi hanno mandato al Valentino dove i pompieri stavano ripescando una signora che si era gettata nel Po. Torno al giornale e mi metto a scrivere. Un collega che non conoscevo, Mauro Benedetti, molto bravo, mi passa dietro le spalle e dopo aver letto le mie prime righe, mi dice: “Auguri!”. Io che credevo di saper scrivere reportage, ero in difficoltà con una notizia di poche righe. Quando ho visto il giornale stampato, il mio pezzo era stato completamente riscritto. Allora sono andato a Porta Nuova, ho chiamato la mia fidanzata e le ho detto: “Non sono fatto per questo mestiere”. E invece mi hanno assunto. Mi hanno messo all’ascolto della radio: una costruzione in compensato che ingombrava un’intera scrivania, costruita da quel genio che era Ippolito De Rolandis, un grande cronista appassionato radioamatore. Intercettavamo le comunicazioni della polizia, dei carabinieri, dei vigili urbani, e anche quelle de La Stampa. Era fondamentale. Quando c’era un attentato tutte queste radio crepitavano insieme. Il primo cronista disponibile scendeva in garage con un fotografo e partiva senza sapere dove andare. Attraverso la radio, che non sempre funzionava, ci indirizzavano. Mi è capitato di entrare al pronto soccorso quando hanno sparato allo psichiatra Coda, quello che torturava i piccoli pazienti, su cui Alberto Papuzzi ha scritto un libro, Portami su quello che canta. L’ho visto ferito alle caviglie, alle ginocchia, alle spalle, ho sentito il medico che mentre suturava le ferite diceva: “Cristo, lo hanno crocefisso”» [ibid.] • Erano gli anni del terrorismo, «con gli assessori comunali democristiani gambizzati davanti a noi, e i volantini delle Br che titolavano: abbiamo colpito i servitori delle multinazionali, e noi li avevamo davanti, coi loro paltò lisi insanguinati, questi pericolosi servitori delle multinazionali, colpiti mentre andavano magari alla sede del patronato della Cisl» [Masneri, cit.] • «La leggenda narra che a Torino si presentasse all’aeroporto di Caselle su informazioni riservatissime per cogliere i politici in arrivo da Roma. Che fosse soprannominato “Topolino” per la scaltrezza e velocità nel reperire le informazioni e trovare le fonti. “Credo che sia un’invenzione di Pansa, questa di Topolino”, dice Mauro [ibid.] • La cronaca: «Un lavoro sfinente, fisico. Nessuno parla mai della fisicità del lavoro di cronista. Il cronista può passare ore a far parlare un politico, riempie un taccuino d’appunti, e sa che non ha la notizia, che non scriverà niente. E poi arriva il momento della stanchezza, il momento decisivo, e lui ti dice la cosa che non ti voleva dire, e lì illumina tutto, e tu gliel’hai tirata fuori» [ibid.] • «Erano anche gli anni in cui si diceva “né con lo Stato né con le Br”, e Sciascia diceva che “lo Stato è un guscio vuoto”, e noi però questo guscio lo volevamo difendere, se salta il guscio che cosa resta? Abbiamo passato ore e ore sotto i portici di Torino a ragionare sul fatto che questo Stato andasse difeso» (poi si scoprirà che anche Mauro, sulla sua Renault arancio, era un obiettivo delle Br)» [ibid.]. Fu pedinato per un mese da Peci perché era senza scorta • Nel 1981 La Stampa: «Il direttore Giorgio Fattori mi ha proposto di andare a Roma a fare la politica e ho accettato, perché aggiungeva un pezzo di mestiere. Ingenuamente gli ho detto: fino a quarant’anni vorrei imparare. Ma lui mi ha corretto: “Caro mio, si impara anche a settant’anni”» [Bolino, cit.] • Una passione per i lirismi della prima Repubblica in fiore: «La vestizione di De Mita», prima dell’acclamazione al congresso del 1982, «nel momento in cui sale al Palasport e si affaccia alle televisioni, al pubblico. Un momento epico, come la vestizione del torero, quando è solo per l’ultima volta prima di affacciarsi sull’abisso». A volte però la cronaca non riesce a trasformarsi in epos. «Una volta, erano gli anni del terrorismo, ho provato a far dire a Pertini la frase “il peggio è passato”, sarebbe stato un bellissimo titolo: Pertini, due punti, il peggio è passato. Bastava solo che lui dicesse “sì”. Ma lui ha risposto: “E che ne so, io? Mica ho la sfera di cristallo”» [Masneri, cit.] • «Informatissimo e furbissimo. Quando vuole ha doti di asciuttezza e sa picchiare» [Pietrangelo Buttafuoco] • «Ho scoperto Montecitorio e mi sembrava incredibile di esserci arrivato. Conoscevo i segretari di partito che intervistavo quando venivano a Torino, ma nel Transatlantico ho incontrato i peones che ne sono l’anima. Ho conosciuto bene Berlinguer, Piccoli, De Mita, i capi democristiani come Bisaglia e Ugo La Malfa. Mi è dispiaciuto molto non avere mai intervistato Moro né Amendola» [Bolino, cit.] • «Nel 1988 Scalfari, direttore di Repubblica, mi chiama e mi propone di fare il corrispondente da Mosca; il giorno dopo però mi chiama anche Ugo Stille, direttore all’epoca del Corriere della Sera, e mi propone New York. Io per correttezza chiamo Scalfari, e gli dico che andrò comunque a parlare con Stille. Scalfari si preoccupa, perché non ho ancora firmato con Repubblica. Gli rispondo: “Ho fatto di peggio: ho deciso”» [Masneri, cit.] • «Gaetano Scardocchia, grande direttore della Stampa, saputa la mia scelta mi trascina a colazione al Bernini e non mangiamo niente, perché i camerieri non osano avvicinarsi, abbiamo urlato tutto il tempo. Poi, anni dopo, però, mi ha dato ragione» • «Era l’idea di poter trarre di più da un lavoro più complicato, fuori dai luoghi comuni, fuori da un mercato comune delle notizie come quello americano. Poter scoprire delle cose più tue, dove la vita ti metteva più alla prova. E poi la possibilità di studiare, e poi vedere i risultati. Io ho preso un cartoncino, l’ho diviso in quattro, ho scritto politica, economia, cultura, società; ho scritto tutto quello che dovevo imparare e leggere. Per tre mesi ho studiato giorno e notte, la mattina il russo e il pomeriggio cose russe. Ce le ho ancora tutte quelle carte, ce l’ho qui l’archivio russo, anche se ormai sarà inservibile» [Masneri, cit.] • A Mosca «mettevo sempre la cravatta. Me la mettevo anche se non c’era nessuno in ufficio, anche se era domenica. Per una questione di riguardo, di rispetto nei confronti del lavoro» [a Salvatore Merlo] • L’ultima volta che vidi Gorbačëv gli avevo raccontato che avevo passato una giornata intera con Navalny» [Subiaco, Generazioneliberale] • «Quando sei a Roma ti senti torinese, quando sei a Parigi ti senti italiano, quando sei a New York ti senti europeo, quando sei a Mosca ti senti occidentale» [Masneri, cit.] • E nel 1990 invece di andare negli Usa è tornato a Torino. Perché? «L’avvocato Agnelli mi ha chiamato per propormi di far il condirettore di Paolo Mieli a La Stampa. Mi piaceva l’idea di lavorare con Mieli. Ci siamo divertiti moltissimo» [Bolino, cit.]. Nel 1992 diventa direttore • Ma nel 1996 è tornato a Repubblica, addirittura successore di Scalfari. Com’è successo? «Scherzando dicevo che era il passaggio dalla teocrazia alla democrazia. Poi ho pensato che la chiave inglese per fare il giornale era la stessa che funzionava a Torino. Ero incosciente. Non era così» [ibid.] • «A me Roma mi piace moltissimo. Ma sono stato facilitato dal fatto che i miei figli, Alberto e Margherita, erano ragazzi. Ogni fine settimana prendevo l’aereo e il sabato li aspettavo al D’Azeglio, all’uscita di scuola, e passavo con loro la domenica. Roma per me era solo il lavoro al giornale» [ibid.] • Rifugge la mondanità: «Non mi piace, non sono capace, non mi diverto all’idea. Sono molto piemontese in questa cosa. Poi magari quelle poche volte mi son trovato anche bene, fai anche delle conversazioni interessanti. Però non sono tagliato, e fortunatamente anche mia moglie odia le mondanità, e io torno quasi sempre tardissimo dal giornale. Ah, e a casa dei colleghi, mai, me la sono data come regola, per non dare adito a pensieri, voci. Dunque, alla fine sto praticamente quasi sempre da solo» [Masneri, cit.] • «Ma c’è un precedente. Il giorno prima che venissi a Roma, l’Avvocato mi ha chiesto quante volte fossi stato nei salotti, nei sei anni di Torino. Gli ho risposto, forse quattro. E lui mi ha detto: faccia la stessa cosa anche a Roma» [Bolino, cit.] • E non andava nemmeno mai in tv. Perché? «Non mi piacciono i talk show. Adesso ci vado ogni tanto se devo parlare di un mio libro. Ma quando incontro qualcuno che mi dice “la vedo in tv”, a me dà fastidio, preferirei che mi dicesse: “Ho letto un suo articolo”» [ibid.] • Una volta «mi ha scritto qualcuno che mi aveva visto nella riunione di redazione in streaming, mi dice “ah, che abbronzatura, si è fatto una bella vacanza, bravo Mauro, invece che stare al giornale”, e io gli stavo rispondendo “guardi che son stato a giocare a calcetto con mio figlio”, poi mi sono reso conto che non era il caso, non ero tenuto» [Masneri, cit.] • Nella grande famiglia di Repubblica, dove c’è già un papà, tu chi sei? Lo zio saggio? «Saggio non me l’ha mai detto nessuno. Eugenio è certamente il padre. Lì c’è stata la fortuna che è nato un rapporto di amicizia, che non era scritto nel contratto. Nei tre anni di Mosca ci siamo sentiti al telefono zero volte in totale. Io mi ero dato la regola: il direttore è una persona impegnata, io non lo disturbo. Se mi doveva dire qualcosa mi telefonava lui. E non mi ha mai telefonato» • Nel 2008 apprezzatissimo il suo reportage Col ferro e col fuoco - Cosa è rimasto dei ragazzi della Thyssen, sui 7 operai morti nel rogo del 5 dicembre 2007: fu letto tra l’altro all’Ambra Jovinelli di Roma dagli attori Paola Cortellesi, Valerio Mastandrea, Claudio Gioè • Ma in definitiva ti piace di più fare il direttore o scrivere? «Scrivere». E cosa odi di più del lavoro di direttore? «Ecco, non mi piace telefonare. Una volta quando ero inviato alzavo volentieri il telefono, adesso spesso quando suona, ecco, proprio non risponderei. Parlo molto meno coi politici. Renzi non lo sento da tre mesi. Con Bersani ci siamo mandati degli sms per Natale. Con D’Alema sono cinque anni che non ci sentiamo. Una volta un vicedirettore è venuto a riferirmi che D’Alema voleva che lo chiamassi, e io lo stavo anche facendo, ma poi ho pensato: ma se mi vuole sentire, perché non mi chiama lui?» [Masneri, cit.] • Nel 2012 intervista Vladimir Putin: «Si presentò con 4 ore di ritardo ad un appuntamento con una delegazione di otto direttori di giornali occidentali, tra cui il sottoscritto». Gli chiese se si volesse impegnare per escludere un atteggiamento duro e repressivo nei confronti dell’opposizione politica una volta concluse le elezioni «mi disse che c’era spazio per tutti nella sua Russia […] cosa che di fatto smentì soprattutto nei confronti di Navalny. La prima cosa che mi colpì di lui fu che mentre io gli porgevo la mia domanda sui diritti umani lui rimase in tensione sulla punta della sedia, mentre quando venne il turno del mio collega tedesco che si occupava di economia si distese completamente […]. La seconda cosa che mi colpì molto fu che mentre mi presentai […] mi disse “ho chiesto informazioni su di lei al mio amico Silvio” […]. Ricordo poi che mentre ci salutavamo – eravamo in una abitazione che ci era stata descritta come residenza di Putin – gli dissi in russo “la prossima volta mi piacerebbe intervistarla al Cremlino” lui mi chiese perché ed io gli risposi che non avevo mai visto l’ufficio di un segretario generale di Mosca. Lui allora mi guardò e mi disse “perché non viene a vedere la mia partita di hockey che vado a fare con loro” indicando le sue guardie del corpo. In quel momento mi immaginai la copertina de Il venerdì di Repubblica con la foto in primo piano di Putin che gioca ad hockey ed il titolo lapidario: La maschera di ferro. Però poi gli dovetti rispondere che a causa di quelle quattro ore di ritardo dovevo correre a scrivere l’intervista per chiudere il numero. Mi sono perso una occasione cruciale per conoscerlo veramente ma ci sono delle scelte che un direttore a volte deve compiere» [Subiaco, cit.] • Nel 2015 a teatro Thyssen Opera Sonora tratto dal reportage di Mauro sulla morte degli operai a Torino nel 2007 • Nel 2016 conduce una trasmissione su Rai 3, La scelta «inaugurata con una straordinaria quanto discussa intervista a padre Gänswein che promette un interessante seguito. Voce pacata e passione per i viaggi» [Subiaco, cit.] • Che giornale legge per primo il direttore di Repubblica? «Li metto tutti su un tavolo. Repubblica non la leggo, perché essendo uscito dal giornale alle undici la sera prima l’ho già letta. Guardo prima il Corriere, poi sbrigo quelli di destra… perché hanno meno pagine, ci metto poco tempo… quindi il Giornale, Libero, il Fatto…». Il Fatto? «Sì, quelli di destra hanno anche meno pagine» (Mauro sorride impercettibilmente). Cosa faresti, se avessi un budget illimitato? «Aprirei degli uffici di corrispondenza nel mondo. Un corrispondente in India, per esempio, subito» [Masneri, cit.] • «Il gossip è il male sottile del giornalismo italiano: non spiega le situazioni, è un modo irresponsabile per far male a qualcuno nascondendo il braccio» [a Cesare Lanza] • «Mi è piaciuto moltissimo fare il mestiere quando scrivevo e ho avuto grandi soddisfazioni. Spero di poterlo fare dopo» [a Luigi Vaccari] • Lascia nel 2016 • I suoi libri: La felicità della democrazia. Un dialogo, con Gustavo Zagrebelsky (Laterza, 2011), Babel con Zygmunt Bauman (Laterza), L’anno del ferro e del fuoco (Feltrinelli, 2017) Aldo Moro (La Repubblica-Gedi, 2018). Per Feltrinelli L’uomo bianco (2018), Anime prigioniere (2019) Liberi dal male (2020), La dannazione. 1921. La sinistra divisa all’alba del fascismo (2020), Lo scrittore senza nome. Mosca 1966: processo alla letteratura (2021), L’anno del fascismo. 1922. Cronache della Marcia su Roma (2022). Da ultimo La caduta. Cronache della fine del fascismo (Feltrinelli, 2023), diventato poi un docufilm • «Ezio Mauro un misto di passione e dedizione. Un grandissimo direttore che per vent’anni ha lavorato ogni giorno come se fosse il primo giorno. Quando ha lasciato la direzione gli ho domandato che cosa avrebbe voluto fare e lui mi ha risposto semplicemente: voglio fare solo il giornalista» [Carlo De Benedetti a Dario Cresto-Dina, Rep] • Nel 2018 ha curato una webseries, in 10 puntate, sul Caso Aldo Moro • «Il potere economico e politico, in Italia, è abituato a considerare i giornali come oggetti che non devono prendere posizione e parlare contro. Un direttore, molto semplicemente, deve sapere che fa parte del suo carico di lavoro ricevere una certa dose di lamentele tutti i giorni. Io dico: ascoltare tutti, sapendo che i lamenti, le proteste e le minacce ti entrano da un orecchio e ti escono dall’altro; tranne che ti dimostrino un errore palese. Può capitare: allora devi chiedere scusa. Oppure ti devono provare la malafede. Che non c’è» • «I politici non sono mai contenti, telefonano, si lamentano anche per le fotografie, pongono addirittura dei veti» • «I fatti sono molto più forti di tutte le invenzioni di chi li vuole interpretare. Bisogna leggere la realtà, aprirla come un libro e comprendere quello che nasconde di più prezioso: i dettagli» [Subiaco, cit.].
Amori Ha tre figli: Alberto e Margherita dalla prima moglie e Matteo dalla seconda, Elena Girardi. Quattro nipoti.
Tifo Tifoso della Juve.
Religione «L’educazione cattolica l’ho ricevuta da mia madre, corretta però dall’anticlericalismo di mio padre e soprattutto di mio zio Vito. Ricordo che leggeva l’Espresso e il Mondo e mi diceva che per i suoi gusti andavo troppo all’oratorio» • «Ci vuole molto coraggio a definirsi ateo, ma anche agnostico. Sono laico» [Bolino, cit.].
Titoli di coda «Fossi un calciatore? Giocherei con il numero 8 di una volta, a centrocampo. Distruggere e costruire».