Libero, 11 novembre 2024
Intervista ad Amedeo Minghi
Solitudini e presenze evocate. Un sound che a tratti ricorda i Pink Floyd ma potrebbe arrivare fino alla frontiera più oscura dei Linkin Park. In due parole l’Amedeo Minghi appena tornato sulla scena discografica con il nuovo disco di inediti Anima sbiadita, concept album con quel quid inaspettato che invita ulteriormente all’ascolto. Una curiosità che va oltre il piacere di ritrovare un grande del cantautorato italiano in questo autunno fatto di grandi ritorni. Nel mirino di Amedeo, 77 anni compiuti ad agosti, i sentimenti, la religione senza più spiritualità, una politica divenuta violenta e senz’anima. Una serie di brutture sintetizzate in una Roma che il cantautore ci racconta come quasi depredata della sua grande bellezza.
Minghi, torna dopo otto anni e a quasi sessanta dal suo esordio. Che mondo e che musica racconta?
«Quest’album, dai ritmi sicuramente un po’ più contemporanei, vuole essere un ponte ideale tra quello che sono sempre stato, ho sempre fatto e quello che vorrei fare da grande».
Nel 2024, a proposito di anniversari, cade anche il decennale della scomparsa di sua moglie Elena. Presenza assente o un’assenza presente che si percepisce forte. È così?
«Certamente. È molto presente. Se possibile ancor più di quanto lo sia stata in lavori precedenti perché il tempo che passa non passa indenne, si porta dietro un sacco di cose. Adesso, proprio perché sono trascorsi dieci anni, ho una consapevolezza che mi dà modo di poterne cantare. Il brano introduttivo Tu non giochi più è la chiave di lettura dell’intero album».
Nel brano Anima sbiadita che dà il titolo al disco ripete più volte “Non crederò mai più a niente”. Strano sentirlo cantare da un uomo di fede come lei…
«Su questa cosa ho riflettuto molto prima di scriverla. Però poi ho pensato che in effetti solo un uomo di grande fede può affermare una cosa del genere. Guardando quello che stiamo facendo su questo pianeta, ci può stare che la speranza si senta almeno un po’ messa alla prova…».
Non arriva però al gucciniano Dio è morto.
«Credo di no perché, nonostante sciocchezze come Halloween alle quali ci sottopone il mercato, poi il giorno dopo le persone sono tutte a onorare i loro morti. Anche domenica scorsa piazza San Pietro era stracolma di gente e non è che le persone vanno lì con una pistola puntata alla tempia. È evidente che c’è in tutti noi un grande bisogno di spiritualità che però tradiamo continuamente».
In questi anni di malinconia il suo pensiero è volato a quell’ “uomo venuto da molto lontano”, San Giovanni Paolo II, cui ha dedicato una sua canzone?
«Ci ho pensato molto spesso e mi sono chiesto, l’ho chiesto anche a amici che frequentano il Vaticano, perché nessuno tra i capi delle grandi religioni prenda le iniziative pratiche che aveva intrapreso Giovanni Paolo? In fondo non è dalla pace che sono unite le tre grandi religioni monoteiste? Invece si sentono solo molte parole ma di concreto non fanno nulla».
Ha un suo ricordo personale di Papa Wojtyla cui tiene particolarmente?
«Ne ho tanti perché ci siamo incontrati varie volte. Il ricordo più bello però è sicuramente quello della prima volta in cui l’ho visto da vicino. Poi cantare un brano che parlava di lui, in sua presenza è una cosa che certo non capita ogni anno. Anzi, siccome stiamo parlando di Chiesa potremmo dire...ogni secolo! (Sorride)».
Lei è romano. Come sta la Città Eterna?
«Viviamo in questa città che è meravigliosa. Ma quello che abbiamo fatto negli ultimi cinquant’anni grida davvero vendetta!»
Un altro grande romano, Carlo Verdone, ha denunciato anche la perdita di spiritualità di Roma. È d’accordo?
«Condivido in pieno quello che ha detto Carlo. Oltre l’incuria che c’è, si sta perdendo il senso della romanità, quelle abitudini e usanze dei romani. Quando ero ragazzino, i miei nonni abitavano a Campo de’ Fiori che in quei tempi era un posto meraviglioso, il più bel mercato di Roma. C’erano i banchi ordinati, con gli ombrelloni, la frutta messa a piramide e le mele lucidate una a una. Poi c’erano quelli colorati di olive e mais e ancora quelli delle primizie. Era un vero spettacolo. Ci sono ripassato qualche tempo fa: non ci si può più stare. Tavolini messi ovunque in mezzo alla strada, piccioni che fanno la cacca sopra le cose. Ormai a noi romani andare a fare una passeggiata in centro provoca dolore. Qualche settimana fa sono andato al Teatro Quirino a vedere lo spettacolo di Solenghi. Uscendo, ero con amici, decidemmo di prendere un gelato e passare per Fontana di Trevi. C’era una sporcizia incredibile. Resti di cibo, cartacce. Un vero schifo. Sono stato a Praga, città piena di giovani che fumano come dannati. Eppure era ordinata. Sono confronti che fanno male…».
Cita Praga e mi fa venire in mente il suo brano I colori dell’est nel quale canta: «Mi ricordo di noi e di Berlinguer». Anche lei si unisce ai nostalgici del segretario PCI?
«Magari ad avercene ancora personaggi come lui. Io fino ai 27-28 anni l’ho votato. Ricordo che quando Berlinguer morì, Almirante andò ai funerali e nessuno ebbe niente da dire. Oggi invece è morto Berlusconi, ognuno ha avuto qualcosa da dire. Sono volati schiaffi, insulti, parolacce come nemmeno dentro i condomini più estremi. Siamo davvero scesi molto in basso».
Lei è stato molto legato anche a un altro grande romano: Franco Califano.
«Al Califfo ho voluto molto bene. Era un uomo buono, simpatico, amava scherzare. Scrissi per lui uno dei primi brani che interpretò, Fio mio, in dialetto romanesco. In quegli anni frequentavamo Edoardo Vianello e il suo gruppo che Franco chiamò per primo i Vianella. È stato sempre bravo a trovare i titoli. Manca molto».
Un’altra sua collaborazione importante l’ha avuta con Pasquale Panella. È suo il testo del brano Cantare d’amore che l’ha resa famoso anche in Sud America.
«Quando uscì quasi trent’anni fa andai varie volte in Brasile dove il pezzo è ancora forte. Più di recente ne abbiamo fatto una versione spagnola che sta andando bene anche negli altri paesi dell’America Latina».
Però non siete riusciti a tradurre “l’acqua che si incontra col suo scialacquio”. Certi versi di Panella sono intraducibili…
«Ma ne abbiamo reso bene il senso. I versi che scrive Pasquale sono difficili da tradurre ma sempre comprensibili da tutti. Tra l’altro abbiamo appena scritto una cosa bellissima che tireremo fuori più avanti. Ancora è presto…».
Ha inviato qualcosa a Carlo Conti per Sanremo?
«Non ufficialmente diciamo... Però non sputo certo nel piatto in cui ho mangiato. Se mi dovesse chiamare sono pronto e se mi volesse come ospite ancora meglio. Penso che dopo otto partecipazioni lo meriterei pure… che dice?».
A trovarla un altra Vattene Amore...
«Quando lo ricantammo assieme io e Mietta, due anni fa all’Arena di Verona, le nostre voci furono coperte da quelle del pubblico che cantava sopra di noi. Ci fece effetto».
Ultima cosa. L’abbiamo vista duettare su un balcone col giovane tiktoker Giordano Spadafora. Ha trovato un erede sui social?
«Lo spero. È molto giovane: 19 anni. Sono andato a trovarlo nel suo habitat. È stato carino. Ha capacità e entusiasmo. Non lo spaventano la fatica e il lavoro. Abbiamo fatto 600 mila visualizzazioni in un giorno su TikTok con Vattene amore. Faremo anche altri esperimenti. Io coi giovani ho sempre avuto un rapporto intenso. Ne ho prodotti molti. Mietta fu una di queste. E a un vecchietto come me non può fare che bene».