il Fatto Quotidiano, 11 novembre 2024
Valencia, dopo l’alluvione incubi solo in periferia: quel che resta di un’alluvione classista
In tempi normali, Paiporta assomiglia a un comune qualsiasi della periferia delle grandi città spagnole. Un susseguirsi di bar, tende da sole di tutti i colori ai balconi e auto parcheggiate senza ritegno. Ma da poco più di una settimana, a Paiporta, le auto sono aggrovigliate l’una sull’altra, coperte di fango, e i bar sono chiusi. È questa cittadina di 25 mila abitanti, a due passi da Valencia, diventata la sede delle televisioni di tutto il mondo, a pagare il prezzo più alto dell’alluvione che ha colpito la regione. Più di 60 morti si contano solo in questo comune, su 223 vittime totali, secondo l’ultimo bilancio ufficiale.
Paiporta è diventata il simbolo di uno dei peggiori disastri climatici della Spagna moderna. A essere stata colpita è una vasta area a sud di Valencia, dove l’ondata improvvisa di fango ha raggiunto anche i due metri di altezza “in soli quindici minuti”, raccontano gli abitanti sotto choc. Il capoluogo regionale è stato risparmiato. A Valencia non c’è traccia di fango. Gli unici segni della tragedia sono le tangenziali bloccate dalla polizia e il rumore degli elicotteri in lontananza. Il dramma però è ovunque. E molte domande restano senza risposta: perché l’allarme è stato dato così tardi? Perché i soccorsi ci hanno messo così tanto ad arrivare? Il sud di Valencia “è una zona ad alto rischio, ma nessuno ne era realmente consapevole, perché il letto del fiume è a secco per la maggior parte del tempo”, spiega Ana Camarasa Belmonte, direttrice del dipartimento di Geografia dell’Università di Valencia. Per la docente, la “gravità del disastro è dovuta all’intensità senza precedenti delle precipitazioni, durate per diverse ore, ma non solo. Si è costruito troppo vicino al fiume. Come in tutta la regione di Valencia, interi quartieri sono in zone a rischio esondazione”. Yolanda Serrano, che vive a Paiporta da quando è nata, ricorda l’alluvione del 1956. Ma “i danni e il numero di vittime sono incomparabili, perché all’epoca – racconta – c’erano meno auto, meno case e meno abitanti”. Sulla porta di casa sua, con i piedi nel fango, Yolanda, che ha l’età della pensione, ma continua a lavorare nell’azienda di famiglia, è molto stanca.
Diversi parenti sono venuti a darle una mano per ripulire la casa. Il fiume Poyo è a soli 200 metri. “Dall’altra parte del ponte c’è un quartiere piuttosto recente. I palazzi sono venuti su come funghi. La maggior parte delle persone vivevano a Valencia, ma si sono trasferite qui perché gli affitti in città stavano diventando troppo alti”. “Come sempre, sono i più poveri a pagare il prezzo maggiore”, osserva Carlos Arriba Ugarte, portavoce di Ecologistas en Acción, un movimento ambientalista presente in tutta la Spagna. “Tutte le città alluvionate sono modeste città di periferia, di lavoratori che votano soprattutto a sinistra”. Per l’attivista non c’è nulla di sorprendente: “Si sa che i disastri naturali, aggravati dal riscaldamento climatico, colpiscono e colpiranno sempre soprattutto le classi lavoratrici. È un fenomeno a cui bisogna prepararsi”. Per Ricardo Verdejo, assessore socialista al comune di Alfafar, non è il momento di pensare al dopo. La priorità ora sono le migliaia di persone ancora senza casa. Ricardo Verdejo è responsabile del centro di distribuzione di acqua, cibo e prodotti per l’igiene allestito nei locali della scuola media, accanto al centro commerciale, che impegna numerosi volontari e dipendenti comunali.
A mezzogiorno, si era formata una fila di circa cinquanta metri. “Le persone hanno perso tutto, l’auto, anche i mobili per chi viveva al piano terra. Molti hanno anche perso il lavoro, perché questo centro commerciale dava lavoro a molte persone”. Migliaia di posti di lavoro sono minacciati. La situazione è tale ad Alfafar che un solo centro di distribuzione non è sufficiente. “Al momento stiamo cercando di stabilizzare la situazione delle famiglie, ma dovremo lavorare molto duramente con le parrocchie per aiutarle sul lungo termine”, osserva il parroco, padre Javier Francès. Tutta la regione partecipa a questo “impegno sociale, che non richiederà mesi, ma anni”, teme Gonçal Bravo. Insegnante di matematica e sindacalista, Bravo è particolarmente preoccupato per Alfafar, “dove vivono molti lavoratori, immigrati e persone particolarmente vulnerabili”. Da Valencia partono tutti i giorni attivisti e volontari. “La disoccupazione in questo quartiere si aggira intorno al 15%. Quando è scoppiata la bolla immobiliare nel 2008, era salita al 30% – spiega —. Quest’area della regione di Valencia è stata particolarmente abbandonata dalle autorità pubbliche”. Secondo lui, “il rischio di inondazioni era noto e da quarant’anni erano in cantiere alcuni progetti per proteggere queste città, ma i fondi non sono mai stati sbloccati”. In particolare c’è stato un progetto per la costruzione di un canale per collegare il Poyo al fiume Turia in grado di assorbire una portata di 5.000 metri cubi d’acqua al secondo. È il Turia che scorreva nel centro di Valencia e che, dopo l’alluvione del 1957, è stato deviato a sud della città per proteggerla. È sempre questo fiume, con il suo letto artificiale, a fungere da zona cuscinetto tra le città colpite e Valencia. Garça Bravo pensa quindi che se questo progetto fosse stato realizzato, avrebbe potuto evitare la morte di tante persone.
Ma ora è troppo tardi. Le vittime della catastrofe adesso hanno altre preoccupazioni. “Ho un collega la cui assicurazione non copre la sua auto perché ha più di cinque anni”, denuncia l’insegnante. In tanti non sanno a quanto ammonteranno i risarcimenti. Ecco perché, mentre si lavora per sgomberare i cumuli di veicoli che ancora bloccano le strade, tanti abitanti cercano di salvare le loro auto. A Sedavi sui parabrezza e i finestrini delle auto sono comparsi dei messaggi scritti sul fango secco: “Non rimuovere, potrebbe funzionare”. Ovunque è iniziata la maratona delle assicurazioni. A Chava, dove la filiale di un’assicurazione è stata appena ripulita, è stato improvvisato un ufficio di fortuna per ricevere gli assicurati. Francisco Mañez, che ha appena recuperato del pane al centro di distribuzione alimentare, aspetta pazientemente il suo turno. Il centro della città è stato sventrato dal fiume. La gigantesca cicatrice rimarrà per sempre nella mente dei suoi abitanti. I palazzi lungo il fiume sono stati evacuati. Gli architetti incaricati dallo Stato temono infatti che possano crollare da un momento all’altro. A preoccupare Francisco, che vive in questa “modesta cittadina di contadini e operai”, e che a sua volta lavora nei campi, è soprattutto che diversi abitanti, tra quelli che hanno perso tutto, non avevano assicurato le loro case. Secondo lui, “il 25% delle case qui non è assicurato”. Una stima approssimativa, ma più o meno in linea con i dati ufficiali della regione. Per rimediare alla crisi nella crisi che si annuncia, il governo di Madrid ha promesso alcuni giorni fa che tutti avrebbero ricevuto degli aiuti finanziari, anche dallo Stato se necessario, per ristrutturare le case. Mentre i lavori procedono a grandi passi per asfaltare le strade, le persone colpite dall’alluvione si chiedono come potranno ormai guadagnarsi da vivere. Fabián, che vive a Alfafar, è diventato uno dei volti del disagio sociale. Tutti hanno visto il suo intervento alla televisione pubblica spagnola: “Il mio capo mi ha chiamato stamattina alle 7, irritato, chiedendomi perché non ero ancora arrivato al lavoro. Visto che la mia auto è andata distrutta, per andare al lavoro ci vogliono due ore e mezza a piedi”, spiega l’elettricista. Così, anche se era più utile restare ad aiutare i suoi vicini nel quartiere colpito dal disastro, si è messo in cammino per raggiungere il suo posto di lavoro. Fabián non ha altra scelta, in realtà: “Il lavoro di mia moglie è stato distrutto dalle inondazioni. Sono l’unica fonte di reddito della famiglia e non posso permettermi di perdere il lavoro. Proprio non posso”.