Il Messaggero, 11 novembre 2024
Cambia la dottrina Usa in politica estera
La decisione di non dare un posto a Mike Pompeo e Nikki Haley nella nuova amministrazione di Donald Trump è un segnale molto importante non solo per gli Stati Uniti ma per tutto il mondo. Il nuovo corso di Trump sarà sempre più Maga – il movimento populista di destra fondato da Trump e nato dallo slogan Make America Great Again, cioè Rendere l’America di nuovo grande – e sempre più governato da una delle ossessioni più profonde del presidente eletto: la fedeltà dei membri del suo governo. «Ho apprezzato molto la collaborazione con loro in passato e vorrei ringraziarli per il servizio reso al nostro Paese», ha scritto Trump ieri mattina su Truth, facendo riferimento proprio a Pompeo e Haley: il primo, italo-americano, è stato abbastanza fedele a Trump negli anni del suo mandato come segretario di Stato. Ma in questa ondata di trumpificazione estrema di ogni dettaglio dell’azione politica, Pompeo non ha un posto nella sua squadra, soprattutto per un motivo: ha da sempre sostenuto gli aiuti all’Ucraina e ora, mentre tutte le voci più forti della futura amministrazione ripetono che taglieranno il denaro per Kiev per usarlo per i cittadini americani, la sua posizione sarebbe stata non solo minoritaria ma anche problematica. La stessa cosa vale per Haley: la sua sfidante alle primarie, come Pompeo, rappresenta il partito repubblicano del passato, quello che Trump ha cercato (riuscendoci) di distruggere e ricostruire a sua immagine. Haley, infatti, oltre ad avere sostenuto la causa ucraina, rappresenta il conservatorismo più classico e intransigente, che è chiaramente lontano dal populismo Maga. Haley sotto il primo governo Trump è stata l’inviata degli Stati Uniti all’Onu solo per un anno, dal 2017 al 2018, e si era allontanata dall’incarico per incompatibilità con le politiche spesso controverse e poco prevedibili dell’allora presidente. Anche nel corso del suo intervento alla convention repubblicana di luglio a Milwaukee, Haley era stata l’unica politica ad essere fischiata. Se otto anni fa, all’inizio della sua presidenza, Trump aveva ancora bisogno di dare spazio a tutte le voci repubblicane, ora sa che il partito è suo. Per questo può riempire le posizioni solo con i fedelissimi, guardando meno al curriculum e più alla lealtà verso il capo. La promessa di Trump a quella parte di America che lo ha votato è di riportare la produzione negli Stati Uniti, ma soprattutto di rendere il paese forte a livello internazionale, sostenendo che con Joe Biden i leader mondiali abbiano smesso di temere e rispettare Washington. E allora la strategia è molto chiara: usare la sua personalità e la sua imprevedibilità per intimorire gli avversari e chiedere obbedienza totale agli alleati. Deve infatti mantenere la promessa elettorale che ha ripetuto senza sosta per due anni: porre fine a tutte le guerre. «Con me la guerra in Ucraina finirà in 24 ore», «se fossi stato io alla Casa Bianca non ci sarebbero state guerre», sono le due frasi che ha detto più volte nei suoi comizi parlando di politica estera. Adesso deve quantomeno contenere la guerra in Ucraina, e trovare una soluzione in Medio Oriente mentre il primo ministro Benjamin Netanyahu – amico personale di Trump – sembra non avere alcuna intenzione di fermare i bombardamenti su Gaza e contro il Libano, con il rischio di una espansione anche in Iran e in tutta la regione. Questa possibilità è temuta moltissimo dai consiglieri più stretti di Trump, che non vogliono un aumento delle tensioni geopolitiche: su questo punto il team che si occupa della transizione guarda da molto vicino il futuro rapporto con la Cina. Trump ha già minacciato tariffe sulle importazioni tra il 60% e il 100%, mentre resta l’incognita di Taiwan: Pechino continua a valutare possibili azioni nella regione, mentre Washington ha un chiaro interesse nel mantenere il controllo nell’area, soprattutto visto che il 50% dei microchip americani sono prodotti lì. Se con i nemici la strategia è quella di puntare sulla deterrenza e sull’imprevedibilità del nuovo leader americano, con gli alleati Trump sta pensando a politiche transazionali convenienti per Washington. In primo luogo con l’Europa, dalla quale vuole obbedienza e un ribilanciamento dei rapporti commerciali. Poi c’è la questione della Gran Bretagna, storico alleato di Washington. Nel corso della campagna elettorale, il primo ministro britannico di centrosinistra, Keir Starmer, aveva incontrato Trump cercando di stabilire un rapporto: in realtà il leader britannico potrebbe essere una delle poche voci in grado di bilanciare l’alleanza populista di Trump a livello europeo. Anche il primo ministro canadese, Justin Trudeau, sta cercando di anticipare Trump: nei mesi scorsi ha inviato una delegazione negli Stati Uniti per aprire un possibile dialogo con i repubblicani e fare ragionare Trump sui dazi e sui rapporti con gli alleati.