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 2024  novembre 11 Lunedì calendario

L’ulivo della guerra

Pochi giorni fa Issa Jbour, 70 anni e sua moglie Mariam sono partiti da Yatta, la città dove vivono in Cisgiordania nel governatorato di Hebron, per raggiungere le loro terre vicino Susya e raccogliere le olive.
Un tempo vivevano lì, poi nel 2011 l’esercito israeliano ha demolito tende, baracche, le cisterne d’acqua. Poi è arrivato l’ordine di evacuazione. Ai palestinesi è stato imposto di liberare 88 dunum di terreni che, si è capito negli anni, servivano a fare spazio ai coloni, ai loro insediamenti e al parco archeologico.
Da allora Issa Jbour e sua moglie tornano solo a raccogliere le olive. O almeno ci provano. Ci hanno provato anche l’altro giorno prima che due coloni a cavallo, arrivati dall’insediamento più vicino, hanno cominciato a molestarli prima e poi a danneggiare i loro alberi.
Issa e Mariam hanno provato a chiedere aiuto all’esercito, nel frattempo arrivato a Susya, che però è rimasto fermo sul ciglio della strada, a guardare.
Mentre cercava di trascinare via un secchio con le poche olive rimaste in mano sua, Issa si è voltato verso i soldati e ha detto: «Non dovreste proteggere noi e arrestare quelli là? Arriverà un giorno in cui ci tratterete come esseri umani?».
Poi si è seduto con sua moglie su un sasso. Hanno aspettato che i coloni andassero via e hanno recuperato almeno un sacco pieno di olive.
Poco, niente, per chi dovrebbe vivere di questo.
Tutta la loro famiglia, un tempo, viveva di agricoltura e pastorizia. Oggi, per andare avanti con le restrizioni dell’esercito che impedisce loro di accedere alle loro terre, hanno venduto metà del bestiame che avevano.
Prima di andare via Issa si avvicina un’ultima volta ai soldati. Mostra loro il permesso dell’autorità civile israeliana. «Posso andarci, è la mia terra». Ma loro insistono che no, non può. «Ritenta domani», gli dicono. «Magari andrà meglio».
Economia al collasso
A più di un anno dall’attacco terroristico del 7 ottobre l’economia della Cisgiordania è ormai al collasso. Le casse dell’Autorità Palestinese sono vuote, Israele – che riscuote i dazi doganali e ogni mese dovrebbe restituirli all’Ap – ne trattiene invece una parte.
Detrazioni che in un anno hanno dimezzato le entrate dell’Autorità Palestinese che ormai riesce a malapena a pagare gli stipendi, portando la crisi fiscale della Cisgiordania alle porte di un «crollo sistemico», secondo la Banca Mondiale.
Non mancano solo i soldi dei dazi, manca anche e soprattutto il lavoro. Dopo il 7 ottobre Israele ha sospeso i permessi di lavoro di circa 140 mila lavoratori palestinesi che prima di spostavano dalla Cisgiordania e che oggi cominciano a essere sostituiti da manodopera indiana.
Il risultato è che il tasso di disoccupazione e la povertà sono aumentate vertiginosamente, col rischio di un baratro non solo economico ma anche sociale. Il tasso di disoccupazione in Cisgiordania è più che raddoppiato rispetto ai livelli prebellici, a una stima del 31% nel secondo trimestre del 2024, rispetto al 13% circa dell’anno precedente, secondo il Palestinian Central Bureau of Statistics. Ad aggravare la situazione, per il secondo anno, sono gli ostacoli all’agricoltura.
L’anno scorso la stagione del raccolto era immediatamente successiva agli attacchi di Hamas, i coloni hanno ripetutamente assaltato i campi palestinesi e agli agricoltori è stato vietato l’ingresso nelle loro terre da parte delle autorità israeliane.
Nel 2023, più di 9.600 ettari di terreni coltivati a ulivi in Cisgiordania non sono stati raccolti a causa delle restrizioni imposte da Israele, e questo ha comportato la perdita di 1.200 tonnellate di olio d’oliva, per un valore di 10 milioni di dollari, hanno aggiunto.
Quest’anno il lavoro nei campi ha una doppia valenza, la prima simbolica – per i palestinesi, infatti, gli uliveti rappresentano le radici della loro presenza qui – la seconda economica, perché attraverso il lavoro nei campi tanti padri di famiglia provano a assorbire gli effetti della recente disoccupazione.
Gli agricoltori palestinesi in Cisgiordania, secondo un gruppo di esperti affiliati alle Nazioni Unite, stanno affrontando «la stagione delle olive più pericolosa di sempre» e hanno sottolineato che «limitare la raccolta delle olive, distruggere i frutteti e vietare l’accesso alle fonti d’acqua è un tentativo da parte di Israele di espandere i suoi insediamenti illegali».
Secondo l’Ong israeliana Yesh Din, solo nei primi 15 giorni di ottobre i coloni hanno attaccato 40 volte i coltivatori palestinesi. Attacchi fisici, furto del loro raccolto, interi uliveti distrutti o dati alle fiamme.
Anche quest’anno, come i precedenti, i palestinesi sanno che devono coordinare i loro spostamenti per recarsi nelle proprie terre con l’esercito.
Anche quest’anno hanno registrato le loro richieste. Ma a ricevere le autorizzazioni sono stati in pochi.
Tra loro la famiglia Abu Salama, a Faqqua.
Le terre del ’48 e quelle del ’67
Faqqua è una piccola cittadina nel Nord della Cisgiordania, un posto pacifico dove vivono circa cinquemila persone. Le strade che portano a Faqqua sono piene di uliveti e orti. Non si respira la tensione di Jenin, che è poco distante. Soldati in giro non ce ne sono, o almeno non si vedono. L’occupazione si riconosce solo dalla barriera di separazione, che sancisce i territori annessi da Israele e dagli insediamenti che si vedono dall’altra parte, come Maale Gilboa.
Gli alberi sono quasi tutti carichi di olive, sono in pochi, pochissimi nei campi. Meno di un mese fa, il 17 ottobre Husam Abu Salama, 66 anni, sua moglie Hanan, 59 e il figlio più grande Fares, sono andati nelle loro terre. Hanno steso delle coperte sotto gli alberi e vi hanno appoggiato delle scale. Avevano aspettato due giorni dopo l’inizio della stagione del raccolto prima di recarsi nei campi. Due giorni prima i residenti di Faqqua avevano ricevuto la notizia che dopo il divieto dell’anno scorso l’amministrazione palestinese aveva raggiunto un accordo per permettere loro di raccogliere le olive fino a 100 metri dalla barriera di separazione.
Il giorno dopo quasi tutti avevano raggiunto i terreni, ma i Salama hanno preferito la cautela. Hanno aspettato un giorno per accertarsi che la stagione del raccolto non iniziasse con incidenti o visite sgradite dei coloni.
Non c’erano state, così il giorno dopo l’anziana coppia è arrivata nel terreno molto presto.
Verso le 8 del mattino, hanno visto un’auto della sicurezza israeliana passare dall’altro lato della recinzione, l’auto si è fermata e uno dei soldati è uscito e ha sparato un colpo di avvertimento per tenerli lontani dal muro. Cosa che loro hanno continuato a fare, senza allontanarsi mai dalla loro terra, su cui avevano il permesso di raccogliere le loro olive.
Un’ora dopo è arrivato un altro mezzo militare da cui sono usciti quattro soldati. Uno di loro è uscito dal mezzo e ha cominciato a sparare. Husam si è tolto il cappello e l’ha sventolato verso i soldati, poi ha cominciato a fare cenni con le mani, e gridare di fermarsi. Ma il soldato non si è fermato. I tre hanno provato a correre, per nascondersi dietro al trattore di famiglia. Poi Hanan ha urlato: «mi hanno colpita, aiuto». Husam si è voltato, e lei era già a terra, ferita al petto. È tornato indietro con Fares per trascinarla via, l’hanno caricata in macchina agonizzante. Di quei momenti Husam ricorda solo che teneva stretta la moglie mentre lei perdeva sangue dalla bocca. Hanno chiamato un’ambulanza che l’ha portata all’ospedale Ibn Sina di Jenin, dove è morta un’ora più tardi.
Secondo un’indagine dell’organizzazione per i diritti umani B’Tselem, dopo che Hanan è stata colpita, i soldati hanno continuato a sparare. Non c’erano stati lanci di pietre contro i soldati, nessuna protesta contro l’esercito. Niente. Solo una famiglia che si dedicava alla propria terra e alle proprie olive all’inizio della stagione del raccolto.
Husam vuole mostrare il luogo in cui Hanan è stata uccisa. Sale in cima a una piccola collina, intorno uliveti da cui non può raccogliere nulla, e terra che non può lavorare.
Non è la sola proprietà che ha, perché la sua, come migliaia di altre, è una storia di terra e di espropri. Lungo il pendio della collina di fronte una rete metallica stabilisce il confine del 1967, i territori occupati e annessi da Israele. Dall’altra parte della barriera la famiglia Salama ha ancora 50 acri. Anzi aveva, perché sono stati confiscati.
Husam le chiama le terre del 1948 e quelle del 1967. Oggi dice, non può coltivare né le une né le altre.
Quando torna a casa, nel cortile ad attenderlo ci sono sei dei 14 nipoti. Si siede con loro in giardino, versa il tè e mostra una fotografia di Hanan. Non versa mai una lacrima. Mai pronuncia una parola d’odio.
Vorrebbe giustizia, questo sì. Ma è consapevole che non la otterrà.