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 2024  novembre 11 Lunedì calendario

Dovremmo smettere di chiamarlo populismo

Giunti a questo punto dovremmo smettere di chiamarlo populismo. Questa parola sembra rimandare a una patologia politica violenta ed effimera: una jacquerie, una sconclusionata e passeggera rivolta di pezzenti, utile a far sfogare la rabbia degli insorti regalando loro qualche giorno di carnevale – ma destinata infine a esser riassorbita senza lasciare tracce. Per quanto in queste elezioni presidenziali americane abbiano senz’altro giocato un ruolo le contingenze, dall’inflazione alla pessima sostituzione in corsa del candidato democratico, la rielezione di Donald Trump sembra segnalare piuttosto, come hanno scritto in tanti, un assestamento strutturale: il coagularsi di una nuova coalizione sociale, orientata verso i repubblicani e tendenzialmente maggioritaria. Come se la vittoria del tycoon nel 2016 fosse stata appena l’inizio di un’opera di costruzione che, otto anni dopo, arriva a compimento. Ma costruzione di che cosa, dunque?
La risposta breve è: costruzione di una nuova destra adeguata alla nostra epoca. Da questo punto di vista, gli eventi americani – seppur con le ovvie, macroscopiche differenze – sono stati per certi versi anticipati dall’Italia. Trent’anni fa, da noi, Silvio Berlusconi costruì una coalizione di centrodestra capace di raccogliere il consenso della metà circa degli elettori. La coalizione era egemonizzata dal partito che aveva fondato lo stesso Berlusconi, Forza Italia: un partito figlio dello Zeitgeist degli anni Novanta, nutrito di individualismo, ottimismo, fiducia nella globalizzazione, convinzione che l’Occidente avesse trionfato e il mondo intero fosse necessariamente destinato a imitarne il modello.
All’inizio del secondo decennio del XXI secolo, in un clima storico assai diverso, cupo, pessimistico e sfiduciato, la crisi del debito sovrano ha distrutto l’egemonia berlusconiana e ne ha disperso l’elettorato. Alle elezioni del 2013, quelle della clamorosa affermazione del Movimento 5 stelle, i partiti del centro destra sommati non arrivavano al 30 per cento dei voti. Ci hanno messo sei anni per tornare alla loro quota «storica», a ridosso del 50 per cento. Ma quando ci sono infine riusciti, alle elezioni europee del 2019, a guidare la coalizione non era più Berlusconi da una posizione di centro destra liberale, ma Matteo Salvini da una di destra sovranista. Il resto della storia è fresco al ricordo. Le elezioni del 2022 hanno portato a compimento la ricostruzione della coalizione e del suo elettorato. Ma l’ascesa di Giorgia Meloni al posto di Salvini non ha modificato il dato di fondo: rispetto ai tempi del Cavaliere, il baricentro dell’alleanza si è visibilmente spostato verso destra. Ossia, si è adattato alla propria epoca, a un clima sempre più aspro, alla diffidenza nei confronti della globalizzazione, alla crisi dell’egemonia occidentale.
Questo processo di adattamento ha colmato lo spazio pubblico di fenomeni che siamo soliti ricondurre al populismo: grida demagogiche, promesse improponibili, radicalismi verbali, fatti alternativi, volgarità e assurdità assortite, provocazioni gratuite. Indignato, l’establishment politico e intellettuale li ha condannati con veemenza, quando non li ha addirittura interpretati come un inizio di fascismo. Eppure, ci si può forse cominciare a chiedere se questi non fossero in realtà che degli epifenomeni: strumenti che i portatori di istanze politiche nuove utilizzavano per attirare l’attenzione, farsi sentire e raccogliere consenso all’interno di un ordine politico ottusamente ripiegato su di sé, arrogantemente convinto delle proprie ragioni, lestissimo nel delegittimare chiunque osasse metterne in discussione la bontà e la capacità di garantire progresso. Concentrandoci sulle forme esteriori del populismo, insomma, potremmo aver perduto anni preziosi a guardare il dito – gli epifenomeni, appunto – a discapito della luna: l’emergere prepotente di istanze sociali che non trovavano rappresentanza presso le forze politiche tradizionali, e il lento adeguarsi dei sistemi politici, sulla destra più che sulla sinistra, a questo mutare di clima storico.
Paragonare Stati Uniti e Italia è sempre un esercizio spericolato, tanto diversi sono i due Paesi. Non mi sembra impossibile però, magari a costo di qualche semplificazione, disegnare per la destra americana una parabola non dissimile da quella percorsa dalla destra italiana. La Forza Italia degli anni Novanta, in definitiva, quella ottimista, globalista e occidentalista della rivoluzione liberale, traeva esplicitamente ispirazione dal processo di riposizionamento ideologico del Partito repubblicano statunitense che era giunto a maturazione con l’ingresso di Ronald Reagan alla Casa Bianca, nel 1981. E pure dopo il trauma storico dell’11 settembre, George W. Bush continuava ancora a muoversi largamente entro i parametri utopico-liberali che erano stati definiti nel ventennio precedente. «Crediamo che la libertà sia il disegno della natura; crediamo che la libertà sia la direzione della Storia», diceva ad esempio nel novembre del 2003. E aggiungeva che i processi di liberalizzazione commerciale e integrazione economica del pianeta avrebbero necessariamente condotto all’affermarsi dei diritti e della democrazia su scala globale, a cominciare dalla Cina. Al di sotto dei conflitti retorici spesso veementi, per altro, su questi parametri i repubblicani convergevano in larga misura coi democratici – col risultato di privare gli elettori della possibilità di scegliere fra opzioni politiche davvero differenti l’una dall’altra.
Stiamo ancora cercando di capire che cosa sia successo fra la fine del primo decennio del XXI secolo e l’inizio del secondo. La mia ipotesi di lavoro è che l’ordine utopico-liberale non abbia saputo mantenere le proprie promesse e che il suo fallimento ne abbia fatto emergere sempre più chiaramente i consistenti tratti di disumanità, l’affidarsi a un inesistente essere umano astratto, disincarnato, decontestualizzato, perfettamente morale e perfettamente razionale. Un paradosso non da poco per un liberalismo che vuol essere – e per tantissimi versi è davvero – la più umana delle ideologie. È ben evidente, invece, come negli anni della presidenza Obama sia venuto montando nell’opinione pubblica americana, così come in quella italiana e in quelle di pressoché tutte le democrazie occidentali, un moto di ribellione sempre più violento. Moto che le forze politiche tradizionali non sono state in grado di comprendere, affrontare, riassorbire, e che ha dato vita a una pletora di movimenti eterogenei – negli Stati Uniti, ad esempio, il Tea Party. La «trumpizzazione» del Partito repubblicano, allora, il passaggio di Trump da una posizione eccentrica e marginale a una centrale ed egemonica, può essere letta come il modo in cui la destra politica americana si è adeguata al nuovo clima storico, si è sintonizzata con i rivoltosi, li ha raccolti in un elettorato e li ha infine portati dentro le istituzioni.
E la sinistra? La sinistra si è schierata a difesa dell’ordine utopico-liberale, sperando che la sua crisi fosse solo temporanea e la protesta figlia di un effimero momento di debolezza. Ma è sempre meno probabile che questa scommessa si riveli indovinata, e nel frattempo gli anni passano, e un ripensamento del progressismo che lo riporti in armonia con la nostra epoca si fa sempre più urgente. Tanto più che la sinistra ha un handicap non da poco, rispetto alla destra: se questa ha potuto far forza sulla nazione – che, sebbene molto più debole che nell’Otto e Novecento, resta comunque una presenza quotidiana nella vita di miliardi di esseri umani -, quella non dispone di un’identità collettiva alternativa e altrettanto forte cui potersi appoggiare