Corriere della Sera, 11 novembre 2024
L’ultimo traguardo di Prada
Miuccia Prada vestirà la prima donna sulla Luna. Bene, sarà bellissimo. Luna Rossa prima o poi porterà in Italia l’America’s cup. Come italiani ne saremmo fieri. Patrizio Bertelli, oltre a essere un grande imprenditore, è uomo di tenacia granitica. Lo prova il suo carattere. A volte irascibile, però schietto, vero. Disse di lui l’Avvocato Agnelli: «È l’unico con le palle». Ma anche questa storica conquista sportiva passerebbe in secondo piano rispetto a un altro grande traguardo che ci auguriamo faccia parte delle strategie della società di cui è amministratore delegato Andrea Guerra. Inutile chiederne conferma a Miuccia Prada e Patrizio Bertelli che risponderebbero, con un filo di civetteria, che hanno cose più importanti cui pensare. Stiamo parlando della creazione di un gruppo, ancora più grande della Prada attuale, che faccia da polo aggregatore della moda italiana. Qualcuno prima o poi dovrà farlo, sempre che ce ne sia il tempo. E tentare di contrastare lo strapotere francese della Lvmh di Bernard Arnault e della Kering di François Pinault, che hanno fatto incetta negli anni di marchi italiani (pur lasciando gran parte della produzione nella Penisola). Le differenze oggi sono rilevanti. Il confronto è persino improponibile. Prada Group fattura 5 miliardi contro i 20 di Kering e addirittura gli 80 di Lvmh. Ma ce la può fare, perché Bertelli ci aveva già provato acquistando il 9,5 per cento di Gucci (poi finito a Pinault con ricca plusvalenza).
È questo, se vogliamo, il senso o almeno l’auspicio finale, di Prada, una storia di famiglia (Sperling & Kupfer) di Tommaso Ebhardt, già fortunato autore delle biografie di Sergio Marchionne e di Leonardo Del Vecchio. Ebhardt lavora a Bloomberg e si occupa di fusioni e acquisizioni tutti i giorni. Sa poco di moda (chi scrive ancora meno) ma molto di finanza ed è ormai un narratore del tutto originale delle economie di scala (con qualche cronaca del sottoscala). Nella parte finale del suo racconto Ebhardt fa i conti in tasca a Prada, scruta la piramide di controllo, saggia le potenzialità di crescita. A differenza di quello che accade in altri gruppi italiani non solo della moda, in questo caso ci sono già un erede designato sul piano della proprietà, il primogenito della coppia, Lorenzo, e uno sul lato della creatività, Raf Simons. Bertelli del resto dice all’autore, in un’intervista proprio a Bloomberg, che in vita sua non ha mai venduto nulla: «Ho ancora la bicicletta che mi regalò mio zio».
Prada ha nel suo marchio Milano ed è un particolare che spesso ci sfugge. Nell’Ottagono della Galleria, sul quale si affaccia un altro marchio meneghino come l’acquisita pasticceria Marchesi, c’è ancora il negozio dei fondatori, i fratelli Prada (Martino e Mario). Ebhardt ha spulciato l’archivio del Corriere per ricostruire gli albori della dinastia di pellettieri, valigiai, arrivati ad essere addirittura fornitori della Real Casa, celebrati per un iconico baule da crociera.
Ha attinto in particolare al bel libro Vita Prada di Gian Luigi Paracchini e, nel descrivere l’irresistibile ascesa nell’universo del fashion, la metamorfosi dello stile, alle interviste e articoli di tante colleghe e colleghi specializzati, tra cui ci piace ricordare Laura Dubini. Ha ritrovato frammenti della storia di Prada di cui nemmeno Miuccia sospettava l’esistenza. Un esempio: il primo negozio non fu in Galleria, come si è sempre creduto. Nell’Albo dei produttori italiani di ogni ramo industriale del 1918-1919, tra chi realizza «marocchini per capelli», c’è la Fratelli Prada di Milano. Il laboratorio, forse non un negozio, era in via Principe Umberto 2, ora via Turati, che dista circa un chilometro dalla Galleria.
Il legame con la città natale di Miuccia è forte, come la voglia sua e di Patrizio («Abbiamo iniziato come concorrenti e siamo ancora in competizione» ha detto del marito) di girare il mondo, innovare, pensare al futuro, ragionare su scala globale. Del passato a Miuccia importa poco. Eppure lei vive ancora nella casa di Porta Romana che chiamarla di ringhiera sarebbe un po’ riduttivo. La Fondazione Prada sorge allo Scalo di Porta Romana, cioè nella prosecuzione del corso, vecchio quartiere operaio. Il liceo Berchet è praticamente sotto casa. Tra i compagni di Miuccia, il futuro sindaco Giuliano Pisapia, lo scrittore Andrea De Carlo. Insegnante di Religione: don Luigi Giussani. Il fondatore di Comunione e Liberazione la affascina ma non la trascina. L’Università Statale, che frequenta, è poco distante. Facoltà di Scienze politiche, tesi di laurea sul partito comunista e la scuola.
Ed è saldo, saldissimo, anche il legame che Patrizio Bertelli ha con la sua terra dove avviò la sua avventura imprenditoriale. Famiglia benestante, tradizione forense, quarti di nobiltà. Ma la scintilla del business arriva per via materna, da un negozio considerato addirittura il «santuario della calzatura». Gli stabilimenti di Torgiano (in Umbria) e Valvigna sono non lontano dalla sua Arezzo, nella quale ha comprato due ristoranti storici, il caffé dei Costanti e perfino l’edicola del centro per non farla scomparire. Certo, poi nel tempo ci sono state ben altre acquisizioni di Prada Group, come l’iconica inglese Church’s, soffiata a Della Valle, Helmut Lang, Jil Sanders, Car Shoe. Ebhardt racconta i passaggi salienti del successo di Miuccia che chiama, chissà perché, la Signora. Dall’apertura del negozio di New York nel 1986 (il New York Times scoprì Prada già nel 1978) all’intuizione dell’uso spartano del nylon al lancio di Miu Miu. «Pur non amando essere incasellata in uno schema specifico, Miuccia Prada, che ha sempre fatto della non ostentazione il suo mantra, non ha mai avuto bisogno di gridare per farsi sentire, di piazzare grandi loghi pacchiani su borse o abiti». Il gruppo non appare nel listino milanese (che peccato), bensì a Hong Kong. Ma si possono conquistare i mercati mondiali senza perdere le radici, anzi cercando di curarle e di irrobustirle. Ha ragione l’autore: i due ex concorrenti, rimasti in competizione anche dopo essersi sposati non si sono fatti inebetire – come altri aggiungiamo noi – dalla magnitudine del successo». Tra Milano e Arezzo, passando per la conquista di tutti i mercati internazionali, asiatici in testa, ha vinto l’elegante discrezione della milanesità.