Corriere della Sera, 11 novembre 2024
Industria dell’auto, ci attende un futuro nero
Sono già 25 mila i posti di lavoro a rischio in Italia nel settore dell’auto e a breve, se non aumentano il livelli produttivi, diventeranno almeno 50 mila. Questa la cruda analisi di Alix Partners per il tavolo dell’automotive presso il ministero delle Imprese. È l’effetto combinato di due fattori: lo stop al motore a scoppio dal 2035 e la spietata concorrenza cinese. Circostanze che però si innestano in un Paese dove la produzione è in calo dagli anni 90, e che quest’anno registrerà il peggiore risultato dal 1956. Il ruolo chiave lo gioca Stellantis perché in Italia è l’unico grande produttore. E perché è difficile attirare nuove case in una fase in cui la domanda in Europa sta drammaticamente scendendo. Il ministro Adolfo Urso ha accettato le richieste del gruppo garantendo 950 milioni di incentivi nel 2023 e chiedendo in cambio di alzare la produzione a un milione di veicoli, quota minima per difendere l’occupazione nella filiera. Il risultato è che si chiuderà l’anno, se va bene, a 500 mila veicoli, e a nulla serve chiedere di restituire almeno in parte quello che negli anni il Paese ha dato all’azienda torinese, perché Stellantis risponde così: «Fiat era un’altra realtà e oggi la famiglia Agnelli-Elkann è solo uno degli azionisti, la società non è più italiana, andiamo a produrre dove costa meno, punto».
La tempesta perfetta Intanto mentre in Europa si litigava sul passaggio all’elettrico, la Cina sovvenzionava le sue aziende, che ora sono una generazione più avanti in termini di tecnologia (tempo di ricarica delle batterie, infrastrutture di ricarica, software, user experience, tempo di sviluppo dei nuovi prodotti). La conseguenza è lo sbarco di auto elettriche made in China sul mercato europeo a costi competitivi (meno 20%). La reazione è stata quella dei dazi: dal 17 al 35% per i prossimi 5 anni. Una barriera commerciale necessaria a prendere tempo per innovare e recuperare competitività. Secondo i dati del rapporto Draghi, nei prossimi cinque anni la capacità produttiva dell’automotive europeo rischia di ridursi ogni anno del 10%. Ma se in Italia la produzione è in calo da trent’anni un motivo ci sarà. E da lì bisogna ripartire.
Il costo del lavoroCominciamo a vedere il costo del lavoro nei Paesi europei dove Stellantis ha gli stabilimenti. In Italia, per l’azienda il costo orario di un operaio metalmeccanico è di 29 euro, in Francia sale a 35 e in Germania a 44. Certo in Polonia si scende a 12 euro e in Serbia a 7. Invece in Spagna, dove Stellantis ha già prodotto nel 2023 il milione di veicoli a cui noi aspiravamo, il costo orario è di 25 euro. Confrontando gli stabilimenti di Saragozza e Madrid con quelli di Melfi e Mirafiori, secondo Stellantis il costo del lavoro in Italia è del 22% più alto e la produttività è del 38% più bassa. Le ragioni sarebbero imputabili a un maggiore assenteismo rispetto alla Spagna (comunque inferiore rispetto a quello della Germania), e più personale con ridotte capacità lavorative per motivi di età o sanitari. Ma la produttività è bassa anche perché i due stabilimenti italiani non viaggiano a pieno regime, e questo non dipende certo dai lavoratori. Inoltre la produttività e il suo mantenimento dipende anche dagli investimenti (fatti o mancati). Sul fronte della componentistica invece le aziende italiane segnalano una produttività più elevata rispetto a Francia e Spagna.
Certamente non si può pensare di recuperare competitività sulle retribuzioni in un Paese che ha visto uno dei maggiori cali dei salari reali tra i Paesi Ocse dal 1990 a oggi.
Il costo dell’energiaI costi di un assemblatore di automobili sono dovuti circa per il 10% al personale, un altro 12% dipende dall’energia. La comparazione fra i Paesi europei dove Stellantis ha i suoi stabilimenti mostra che l’Italia ha in assoluto il prezzo più alto: 103 euro al MWh, contro i 49,3 della Francia, i 71,4 della Germania, i 92,1 della Polonia, i 91,5 della Serbia e i 53,7 della Spagna. Si discute di un ritorno al nucleare attraverso i nuovi reattori modulari, ma ci vorranno almeno 12 anni, mentre la sopravvivenza del settore è in gioco adesso. Una strada la mostra il professor Massimo Beccarello, direttore del Centro di ricerca in economia e regolazione, dei servizi, dell’industria e del settore pubblico dell’università Bicocca (Cesisp): «Nell’immediato una leva per rendere competitivi i settori strategici per il Paese possono essere le energie rinnovabili, vuol dire che innanzitutto il governo deve accelerare la produzione di eolico e fotovoltaico per raggiungere gli obiettivi che si è dato entro il 2030, contemporaneamente va affrontato il problema del prezzo.I costi di produzione delle rinnovabili sono più bassi, incluso quel 23% di energia prodotta da idroelettrico, ma poi tutta questa energia viene venduta allo stesso prezzo di quella prodotta con il gas. Bisognerebbe disaccoppiare i prezzi e destinare una parte di questa energia da rinnovabili ai settori a rischio delocalizzazione». Questa separazione dal prezzo del gas è peraltro prevista dal nuovo regolamento europeo (Ue 2024/1747) sul mercato elettrico.
I limiti della logisticaSecondo i dati forniti dalle imprese della componentistica al ministero delle Imprese e Made in Italy, il costo della logistica in Italia è allineato a quello spagnolo, mentre Stellantis segnala che nei suoi siti produttivi in Italia, come Atessa, Cassino, Melfi e Pomigliano, i costi sono ancora più elevati rispetto agli altri Paesi europei, a causa di una rete di trasporto e intermodalità insufficiente, che comporta un aumento dei costi di spedizione. Per quanto riguarda Atessa – segnala sempre Stellantis – servirebbero: un collegamento ferroviario verso il Tirreno, il completamento della Fondovalle Sangro per agevolare i collegamenti con Pomigliano e Cassino e il potenziamento della piattaforma logistica di Saletto Fossacesia con la costruzione dell’ultimo miglio ferroviario per favorire l’uscita delle merci. Trattandosi di investimenti mirati devono però essere vincolati alla continuità produttiva di questi stabilimenti, onde evitare di spendere soldi in infrastrutture che poi non vengono utilizzate. Dall’indagine di Alix Partners emerge che le nostre imprese della componentistica sono troppo piccole per la competizione globale: hanno un fatturato medio inferiore del 20% rispetto a quelle francesi e del 50% rispetto alle tedesche. Il settore inoltre dovrebbe investire di più in ricerca e sviluppo, anche in considerazione del fatto che il costo di un ingegnere in Italia è addirittura più basso che in Cina.
Assenza di programmazione Tornando al nostro unico maggior produttore: è vero che Fiat ha ricevuto dal Paese più di quanto ha dato, ma è altrettanto vero che i governi che si sono succeduti negli ultimi 50 anni non hanno fatto quello che era necessario per avere un rapporto alla pari. Al gruppo partecipato dalla famiglia Agnelli è stato concesso di non avere concorrenti nel Paese (basti pensare alla mancata vendita di Alfa Romeo a Ford), mentre in Spagna i produttori sono diventati cinque. Quando era il momento propizio, poi, lo Stato italiano non ha nemmeno cercato di diventare azionista. Era il 2002 quando Fiat, in estrema difficoltà, si rivolse al governo, che però decise di non investire sul gruppo. E il consiglio di Berlusconi all’epoca fu quello di fare un restyling dei modelli Fiat e cambiare il marchio mettendo Ferrari. Ora dobbiamo scegliere se continuare a lamentarci o se cambiare passo. Al momento l’idea di politica industriale nel nostro Paese sta nell’ultima legge di Bilancio: i 4,6 miliardi del fondo automotive stanziati dal governo Draghi da spendere entro il 2030, sono stati cancellati con un tratto di penna