Corriere della Sera, 11 novembre 2024
Il ruolo dell’ottimismo nella vittoria di Trump
Un ingrediente per niente segreto del trionfo elettorale di Donald Trump, così come fu per Silvio Berlusconi che anzi l’anticipò di vent’anni, è l’ottimismo. Un ottimismo possente, quasi messianico, per molti aspetti fideistico, che infatti dà vita a una vera e propria fede nel leader (nel significato che il cristianesimo diede a questa antica parola latina: «speranza delle cose promesse»).
Trump ha vinto soprattutto perché promette una nuova età dell’oro, è sicuro di poter rifare grande l’America, garantisce ai «dimenticati» una palingenesi, un nuovo inizio, una svolta nelle loro vite: l’oggi è una catastrofe, peggio di così non potrebbe andare, ma il domani sarà diverso, il sole risorgerà. E agli scettici, che nei media oppongono il pessimismo della ragione, risponde lo slogan della campagna elettorale: «Trump will fix it». Lui l’aggiusterà.
Questa volta l’«ottimismo reaganiano» (lo slogan con cui D’Agostino marchiò gli anni Ottanta) si è colorato anche di uno spirito di avventura da fantascienza, come ai tempi di Kennedy e della corsa allo spazio. Razzi che volano verso Marte, il sistema Super Link che ci difende dagli uragani, taxi senza guidatore: queste sono state le elezioni di Elon Musk, il vero alter ego del ticket presidenziale, il «super-genio» che va protetto, dice Trump, perché l’America è sempre in cerca di nuova frontiera, e niente è impossibile quando gli esseri umani vengono liberati dalla burocrazia e dalla camicia di forza del politicamente corretto.
È facile criticare l’ingenuità, o il consapevole inganno che si nasconde dietro le utopie dei politici, soprattutto quando chiedono i voti. Ma una dimensione escatologica è necessaria e c’è sempre stata in ogni movimento politico degno di questo nome. La sinistra stessa è nata con il più radicale dei messaggi ottimistici, ha inventato «il sol dell’avvenire» e ha promesso la definitiva liberazione dell’uomo dallo sfruttamento, mica quisquilie. Ora invece la nuova cultura politica che ne ha preso il posto, dopo aver fatto fuori quella vecchia pragmatica e progressista, è diventata pessimista, cupa, quasi catastrofista. Predica l’arrivo di un Armageddon, non di una Resurrezione.
L’angoscia climatica ne è forse l’esempio più formidabile. Non intendo le previsioni scientifiche su che cosa stia davvero accadendo all’ambiente, ma la retorica devastante di cui sono state rivestite. Gli oceani si solleveranno, i pesci nei mari moriranno, nuove specie animali prenderanno il sopravvento, l’umanità ne sarà condannata, siamo alle porte della «sesta estinzione di massa» dell’Antropocene: uno studente medio delle nostre scuole, in Occidente, più o meno ha capito questo del suo futuro. E non credo che la cosa sia estranea allo «spleen», al sentimento di disperazione quasi nichilistica che avvertiamo nel comportamento dei giovani.
Badate, non c’è bisogno di credere davvero in tutte quelle profezie di sciagura per cedere alla sfiducia nel futuro; basta vivere immersi nel clima culturale del nostro tempo, basta essere fan di una qualsiasi delle innumerevoli stelle dello star system che si sono schierate con Kamala Harris, per condividerne l’ansia climatica; anche se la più brillante tra loro, Taylor Swift, nel 2022 è stata considerata la celebrità più inquinatrice del pianeta per aver prodotto da sola più di ottomila tonnellate di CO 2 in un anno, volando con i suoi jet privati per i concerti e le visite al fidanzato.
Perfino quando la sinistra dice che «la destra diffonde la paura», e ripete lo slogan di Roosevelt, «non dobbiamo avere paura che della nostra paura», in realtà sparge pessimismo sulle sorti della civiltà. Per esempio: dietro l’apertura ai movimenti migratori, fondata sulla scommessa dell’integrazione possibile, dell’altro che diventa «ospite» invece che «nemico», si intravede un pessimismo sostanziale sul mondo che verrà; perché dà per scontato lo svuotamento dell’Africa e il nostro inverno demografico, e non crede davvero nella possibilità di esportare il benessere in quel Continente investendovi, ma anzi propone di prendersi i suoi giovani come manodopera per salvare il nostro benessere, come faceva l’Impero Romano con la società servile di massa.
Un nuovo malthusianesimo fa pensare ai nipoti dei progressisti di un tempo che il progresso non basterà, che siamo già troppi sulla Terra, e che dunque in fin dei conti è più saggio non mettere al mondo figli destinati a un incubo. Ignorando gli incredibili salti di produttività agricola e industriale che hanno invece consentito negli ultimi due secoli e mezzo l’esplosione demografica: di cibo e di benessere oggi ne produciamo a sufficienza per tutti, se solo riuscissimo a farlo arrivare in quelle periferie del mondo oggi escluse dal vituperato sistema capitalistico.
Il discrimine ottimismo/pessimismo riguarda ovviamente anche l’economia. Ricordate quando Berlusconi, l’uomo col «sole in tasca», diceva che non c’era la crisi perché i ristoranti alla sera erano pieni? Aveva torto, la crisi c’era; ma aveva anche ragione, i ristoranti erano davvero pieni. E tutto sommato, se un politico convince la gente che c’è una tale crisi che è meglio non andare più al ristorante, la crisi l’aggrava.
L’ottimismo è un fattore decisivo nel comportamento degli esseri umani. In un bel libro appena pubblicato («Un miracolo non fa il santo»), l’economista Nicola Rossi individua in aspetti immateriali come i valori, le abitudini, i costumi, le cause più profonde di quell’unico quindicennio (1947-1964) della nostra storia unitaria in cui siamo cresciuti a un ritmo molto superiore agli altri: sforzo di migliorarsi, assunzione di rischi, predisposizione al cambiamento, hanno creato negli anni del «miracolo» un atteggiamento culturale singolarmente aperto verso le libertà economiche. E pensate che l’America non possa fare oggi altrettanto?
Il vero problema dell’ottimismo trumpiano è un altro: è che si fonda su un sostanziale pessimismo per le sorti del resto del mondo, è un «ottimismo in un paese solo», per parafrasare la formula del «socialismo in paese solo» su cui Stalin costruì le basi della potenza sovietica. Il che, inevitabilmente, porta Trump a un’indifferenza anche per le sorti della libertà nel mondo: così le democrazie europee diventano competitori, «free riders» da punire con i dazi, e le autocrazie come la Russia di Putin partner da trattare con i guanti bianchi. Ma questo è un altro discorso, e riguarda noi.