Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  novembre 10 Domenica calendario

Biografia di Luigi Manconi

Vi chiederete che mondo sarebbe quello in cui venisse meno il bene prezioso della vista.
Ridotta alla scarna e brutale questione, la cecità esce dalla metafora per entrare nella vita.
Abbiamo molti esempi nel campo letterario, da Omero a Borges a Saramago, ma è come se si giocasse una partita truccata: come se la perdita della vista – paradigma Tiresia – potesse potenziale la percezione artistica e la sensibilità verso il futuro.
Magra consolazione, verrebbe da concludere, soprattutto dopo aver letto La scomparsa dei colori (edito da Garzanti) in cui Luigi Manconi ci racconta cosa sia davvero la vita di chi malauguratamente è affetto da cecità: «È un libro – mi dice Manconi – in cui non c’è nulla di saggistico, nulla della mia professione di sociologo e di politico. Ho solo provato a raccontare la mia nuda vita». Sediamo uno di fronte all’altro, separati da una piccola scrivania. Eppure la distanza mi pare immensa. Ho la sensazione di vivere lo strano e affascinante viaggio nella galassia di un cieco.
Cosa l’ha spinta a raccontare i momenti salienti della sua vita da non vedente?
«Nel desiderio di sostituire la vista con la scrittura ho tentato di raccontare un mondo di colori scomparsi, di forme dileguate, di oggetti cancellati, di volti dimenticati. È tutto quello che una persona, nelle mie condizioni, può perdere».
Dà così tanta importanza alla scrittura?
«Potrei pensare al potere taumaturgico della scrittura, alla sua illusoria capacità di guarigione che pure c’è. Mi accontento del fatto che la scrittura è sempre stata una parte di me. Ho sempre avuto il culto della parola. Quel culto, dopo la cecità, si è trasformato in ossessione».
Intende dire in qualcosa di assoluto?
«Non riesco quasi a pensare ad altro. Ho sempre avuto nella scrittura, come nell’oratoria, l’esatta misura di ogni singola parola. L’ho sempre percepita come una dote, meglio, come un principio di piacere e poi è diventata questa cosa qui».
Cosa esattamente?
«Una scrittura che imprigiona. Il che è paradossale perché nel mentre mi reclude mi libera anche. Come stare in uno spazio chiuso dentro il quale improvvisamente si disegna una finestra, dalla quale comunico con il mondo».
Tecnicamente come realizza il processo di scrittura?
«Devo avere già ben definita la scansione delle prime frasi. È uno strano nitore che si forma nella mente. Soprattutto di notte, quando sono a letto, immagino l’incipit di un articolo o di un saggio e la frase si ordina perfettamente con tutta la punteggiatura. E così la frase successiva».
Deve avere un’eccellente memoria.
«La memoria fissa o registra quello che la mattina dopo detterò. Ho sempre avuto fin da bambino il dono della memoria».
Dove è nato?
«A Sassari. Ho compiuto 76 anni, unico maschio di cinque figli. Mio padre era medico. Non è stato un rapporto facile quello con lui. A lungo conflittuale. Solo negli ultimi anni, quando ha cercato di capirmi, è subentrata una inaspettata dolcezza».
Capirla in che senso?
«Tentare di entrare in quel mondo – il mio mondo – che gli era totalmente estraneo. Avevo cominciato fin dal liceo a impegnarmi in politica. Fu il primo dissidio. Poi nel 1967 vinsi una borsa di studio per l’Università Cattolica e mi trasferii a Milano. Venni espulso dalla Cattolica perché indicato come uno dei leader del Movimento studentesco. Contribuii alla nascita di Lotta Continua. Dopo alcuni scontri con i fascisti e le forze di polizia venni ferito, finii in ospedale. E successivamente arrestato. Nel carcere di Torino scrissi una lunga lettera a mio padre spiegando le ragioni delle mie scelte».
Le accolse?
«Ricevetti a sorpresa una sua visita. Arrivò direttamente da Sassari. Fu emozionante il nostro incontro. Per la prima volta avvertivo la sua pena e il suo orgoglio. La cosa buffa è che io, come tre delle quattro sorelle, ero stato concepito nella colonia penale dell’Asinara dove papà era stato a lungo medico».
Come furono gli anni milanesi?
«Per un certo periodo l’impegno politico mi assorbì. Soprattutto durante il giorno. La sera, quando potevo, frequentavo i teatrini off. Una delle ragioni per cui scelsi Milano è che avrei voluto fare l’attore o il regista. Mi restò la passione del teatro. Sul piano più intellettuale frequentavo Franco Fortini, Vittorio Sereni, Giancarlo Majorino. Ma fu soprattutto Giovanni Raboni, quando venni espulso dall’Università, ad aiutarmi proponendomi di scrivere alcune voci per l’Enciclopedia Garzanti».
Ha fatto anche il critico musicale.
«Non sono mai stato un critico, diciamo che da giovane mi sono mantenuto scrivendo libri sulla musica leggera, firmandoli con lo pseudonimo di Simone Dessì».
Non era un critico ma stroncò Fabrizio De André.
«Considero De André il più bravo di tutti. Ma il suo album Storia di un impiegato non mi piacque. Tranne l’ultima canzone Nella mia ora di libertà: è per me la cosa più bella mai scritta sul carcere».
Prima mi parlava del fatto di sentirsi in qualche modo prigioniero della scrittura. Cosa le ha tolto la cecità?
«Mi ha privato della bellezza e della libertà. Il prima e il dopo è segnato dall’avvento di questi due stati di povertà».
Cosa ha comportato la perdita della bellezza?
«Per esempio non poter conoscere l’evoluzione dei volti dei miei figli. Ho solo il ricordo che risale a dieci anni fa. Non sto parlando di un canone estetico ma di un fatto emotivo che mi provoca dolore».
Un dolore in che senso?
«Dovuto all’impossibilità di sapere come sono fisicamente le persone. Io non so come è lei ed è una privazione che rende più superficiale la relazione. Mi priva di un elemento di autenticità e quindi di verità del rapporto».
Questo ha a che vedere con la bellezza?
«Sì, ma non solo in quanto canone estetico, come spinta emozionale. Mi è capitato di pensare qualche tempo fa ai Girasoli di Van Gogh. Nella mia mente c’era il ricordo di quel dipinto che associavo alla copertina di un fascicolo deiMaestri del colore, una raccolta che facevano i miei. Per sessant’anni iGirasoli sono stati questo e non altro. Ripensando oggi a quel quadro mi sono reso conto di aver perso quell’immagine, di cui resta solo una specie dipulviscolo giallo e arancione».
È la perdita del colore.
«Certo, perdita della bellezza significa drammaticamente anche questo».
Tra le cose che mi hanno colpito del suo racconto è quando dice di aver perso la capacità di disegnare.
«Ho sempre disegnato in maniera dilettantesca. Mi divertiva farlo. Come pure, conseguenza ben più grave, ho perso la capacità di tenere la penna in mano».
Parlava prima dei volto dei suoi figli. Qual è il rapporto con il suo, di volto?
«Non so come sono invecchiato, ho la coscienza del mio naso che avverto importante. Ho memoria dei capelli che erano già imbiancati. Per il resto non ricordo nulla. È come una mappa geografica di cui ho perso le linee e i contorni. Non so più bene chi sono. Ma non è così tragico, non lo è come la perdita della libertà».
In che senso sente di essere meno libero?
«Nel senso dell’indipendenza o dell’autonomia rispetto agli altri. Chiedere com’è questa camicia che indosserò.
Non poter mettere lo zucchero nel caffè, non poter uscire da casa per mia decisione, andare a piedi alla stazione, prendere un treno. Questa è la perdita di libertà. Non la libertà con la elle maiuscola, ma il sentirsi banalmente liberi nei movimenti della vita quotidiana. Ma c’è anche qualcos’altro».
Cosa?
«Quello che io chiamo il rimpicciolimento. Lei ha visto che mentre parlavamo ho urtato una bottiglia versando dell’acqua sulla scrivania. Per evitare piccoli disastriprovo a farmi piccolo, misuro i miei movimenti, cerco di esercitare un controllo sui miei gesti».
Apre a un diverso rapporto con lo spazio.
«Direi di sì. Lo spazio entro cui si muove e agisce un cieco è qualitativamente diverso. Sono i rumori e la memoria a guidarmi. Ma a volte sono nell’incapacità di prendere la direzione giusta».
Parlava del modo in cui la cecità le ha portato via certe emozioni suscitate dalla bellezza. Vale anche per la politica?
«Direi di no. Ho sempre cercato di tener conto del fattore umano nella politica senza rifuggire dal carattere emotivo».
Tradotto?
«La chiamerei “biopolitica” intendendo l’attenzione ai corpi, alle passioni, alla sfera sessuale e ai diritti fondamentali della persona. Una biopolitica di cui l’emotività sia parte fondamentale. C’è poi l’altro aspetto: il biografismo, la necessità di partire sempre da nomi e cognomi. Se dovessi dirle in sintesi cosa è stata per me la politica farei un elenco di nomi. Tutte le battaglie da me promosse muovono da nomi e cognomi».
Qualche esempio?
«L’associazione dei parenti delle vittime di Ustica, Stefano Cucchi. Vicende che hanno a che fare col rapporto società e diritto. Grandi categorie che però muovono tutte da un nome e un cognome. Il trattamento sanitario obbligatorio per me si chiama Franco Mastrogiovanni, maestro elementare, morto a seguito di una lunga e crudele reclusione forzata».
La sua patologia è stata un lento progredire verso la cecità. Quando ne ha avuto la percezione come ha reagito?
«La presa di coscienza che, nel giro di qualche anno, sarei diventato cieco ha costituito per me un trauma. Uno shock cui è seguita una depressione durata un po’ di tempo che ho contrastato con una furia iperproduttiva. Ho un carattere che tende al fare e questa è stata la principale terapia contro la depressione».
In che condizione l’ha gettata la consapevolezza?
«In uno stato di smarrimento, che in me si manifestava attraverso il pensiero ossessivo che l’oscurità sarebbe coincisa con la fine di tutto. All’epoca conservavo un residuo di vista che mi consentiva la percezione di volti, movimenti, oggetti. Ma apprendere che sarei inevitabilmente giunto allo stadio del buio totale mi ha provocato lo shock».
Cos’è il buio per un cieco?
«Non è il nero, ma una strana e impalpabile luminescenza».
In quello smarrimento che pensieri ha avuto?
«Anche di morte, anche la tentazione del suicidio. In quel periodo immaginavo l’oscurità come una forma di immobilità e di impotenza, e questo ha prodotto cattivi pensieri».
Ritiene che togliersi la vita sia una scelta auspicabile?
«Auspicabile no. Ma nelle mie condizioni poteva essere possibile».
Di fronte a un pensiero così estremo cosa provava?
«Non ho paura di morire, non sono angosciato dall’invecchiare, dalla fine che arriva. I miei pensieri in quella circostanza non erano di panico né di disperazione. Ma solo una possibile soluzione. Ma togliersi la vita è molto difficile. È un gesto contro natura che è difficile da accettare».
Concluderei questo nostro incontro con una sua frase: “Sono un uomo anziano, con una notevole predisposizione alle lacrime”. Cosa nasconde nelle lacrime?
«Per me l’idea o la speranza che si potesse compiere un miracolo, che la mia vista sarebbe, come di incanto, tornata. Pensavo al romanzo di Jules Verne, quando Michele Strogoff fatto prigioniero dai tartari viene accecato con la lama di una sciabola rovente. E lì si compie il miracolo, il pianto involontario di Strogoff gli preserva la vista».
Questo che cosa le ha indotto?
«Ho pensato da un lato che la cecità fosse il mio destino e che dall’altro si potesse in qualche modo realizzare il miracolo delle lacrime, cioè ci fosse la grazia, un qualche intervento salvifico. Ma il miracolo non c’è stato».
E allora?
«Ho capito che le lacrime non sono un segno di debolezza, ma una forza gentile che può nascere solo dal riconoscimento della nostra vulnerabilità».