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 2024  novembre 10 Domenica calendario

Biografia di Geolier

Chi è Geolier? Alla fine di un pomeriggio particolare tra il cuore di Napoli e il suo studio di registrazione appena fuori città, resta Emanuele, Manu, un ragazzo di 24 anni, cresciuto a Secondigliano, pazzo per il rap che lo ha trasformato in un artista idolo della Gen Z: 87 dischi di platino e 37 ori, tour sold out negli stadi, 4 milioni di follower sui social, un brano, I p’ me, tu p’ te,secondo al festival di Sanremo tra le polemiche perché al televoto era il più votato. Del resto Geolier è una star su TikTok dove i suoi video hanno milioni di visualizzazioni: una responsabilità, adesso lo sa. Manu, che si è scelto un nome d’arte in stileGomorra (geolierin francese significa secondino), la faida dei clan l’ha vissuta nel suo rione quando era un bambino che ascoltava Michael Jackson. Nel 2019 il successo ha bussato alla sua porta: ha girato il video del suo brano Narcos con un mitra in mano e la notte diCapodanno 2022 ha sparato a salve scatenando le polemiche. Ma pochi giorni fa, quando a Napoli Santo Romano è stato ucciso a 19 anni per aver pestato la scarpa di un coetaneo, ha postato una storia sui social diventata virale: «Facili omicidi. La Napoli che non vorrei. Basta».
Insomma Emanuele, chi è Geolier?
«Ho fatto errori. Non rifarei il video con il mitra in mano, non sparerei a salve dalla finestra. Perché sono cresciuto. Ma ho 24 anni e a volte faccio cazzate: tipo girare un video per i social mentre sto guidando senza cintura. Sono cresciuto a Secondigliano dove il casco e la cintura non si usano. Ma non ho mai subito il fascino della violenza».
Geolier ha scritto una biografia —Per sempre – che è la storia di un ragazzo che la musica ha salvato. Il pensiero fisso al rap durante le dieci ore in fabbrica; l’incontro con un altro rapper; il barbiere del rione che affitta la sala di registrazione; il primo brano,P Secondigliano, e le visualizzazioni che crescono. E poi il successo e i soldi, tanti, abbastanza da cambiarela sua vita e quella della sua famiglia.
Ha preso posizione dopo l’omicidio di Santo: perché?
«Perché mi fa male vedere che una vita vale meno di una scarpa. Mi fa male pensare che per alcuni ragazzi ci sia il mito della pistola. Mi fa male che questo omicidio arrivi dopo quello di Emanuele Tufano e Giogiò. Ho un nipote di 18 anni. Non voglio avere paura quando esce».
Lei è l’idolo di migliaia di adolescenti che la seguono anche sui social: si è dato una spiegazione?
«Non lo so. Quello che so è che airagazzi cresciuti in certi quartieri hanno tolto i sogni. Il ragazzo che ha sparato un sogno non ce l’ha».
Come si fa a farli sognare?
«Portandoli con sé».
Dove, via dal rione?
«No. Verso una visione di futuro. Con la mia storia voglio dire loro che tutto è possibile».
Riavvolgiamo il nastro. Il libro che ha scritto punta molto sul fatto che non rifarebbe più certe cose. Perché le ha fatte?
«Perché era più piccolo. Perché quando ho scritto Narcos vedevo laserie su Pablo Escobar e, come racconto nel libro, quella storia mi sembrava un western. Non ero attratto dal sistema malavitoso».
Però nel suo ultimo album c’è un brano che si chiama “347” come la pistola.
«È una metafora. Non si inceppa mai come me e Guè che la cantiamo. Chi mi segue lo ha capito. Chi vuole relegarmi solo aNarcos no».
Stiamo attraversando Napoli in macchina: dovevamo raggiungerlo al suo studio di registrazione «ma ci mancherebbe – ha detto lui aprendola portiera nel suo simpatico napoletano misto italiano – io sono di Napoli, l’ospitalità prima di tutto». E così parliamo, mentre la città scorre fuori dai finestrini. Alla nostra destra ecco le Vele di Scampia: imponenti, nude, scandalose. «Ci ho portato la mia fidanzata, voleva vedere com’erano i posti nei quali ero cresciuto. Mi ha detto: “Non ci credo che sei cresciuto così”».
Così come?
«Quand’ero piccolo con i miei amici buttavamo giù i pali della luce per rubare i cavi di rame e venderli. Con i soldi compravano le biglie, i “dollari”, tipo figurine con i calciatori dietro. La guerra tra i clan che Gomorra racconta era sotto alle mie finestre.
Eppure mio padre, i miei fratelli, hanno sempre lavorato: in fabbrica afaticare.Mio padre mi ha sempre detto che quelli che nei film sembrano tosti poi finiscono male: è vero.
Bisognerebbe chiedere a lui come si fa a crescere cinque maschi a Secondigliano tutti lavoratori. Ioamavo la musica. Ascoltavo 50 cent, Michael Jackson, i Co’Sang (gli autori della colonna sonora diGomorra, ndr).
Ma posso dire una cosa?».
Certo.
«Io non rifarei mai certi video, proprio non mi appartengono più. Ma il problema non è Gomorra o Mare fuori, il problema non è il rap: il problema è la realtà, non sono i testi espliciti. Recentemente a Secondigliano un bambino piccolo girava con una minimoto e una pistola a piombini nella tasca. Gli ho preso la pistola e l’ho spezzata, poi sono andato da suo padre, che conoscevo, a dirglielo. Ma non possiamo censurare il rap: ai ragazzi resta solo quello. L’arte non può avere un potere educativo».
Lei scrive nel libro: «Ho dimostrato che si può nascere a Secondigliano e non fare lo spacciatore, che la musica è un’alternativa alla strada». Può bastare?
«No. Perché il mio libro i ragazzi di Secondigliano e di Scampia non se lo andranno a comprare, non ci vanno in libreria. Ci vuole un sogno per questi ragazzi, come lo ho avuto io».
Però la seguono su Tiktok: una grossa responsabilità, no?
«Sì adesso lo so. Cercherò di stare attento, perché sono un esempio per molti. Ma bisogna vedere cos’altro propone loro l’algoritmo».
Chi era Geolier da bambino?
«Giocavo per strada ma poi tornavo sempre a casa dai miei genitori. Andavo a scuola e mi piaceva tanto ma ero il quinto di cinque figli, il più piccolo, e volevo faticare anche io come loro: ho lasciato dopo le medie e sono andato a lavorare in fabbrica».
Arriviamo allo studio di registrazione, una palazzina bassa, in una strada quasi di campagna a Lago Patria, dove lavorano anche altri artisti. Dal primo piano arriva il suono di un beat. «La scuola prima o poi la finirò – dice mentre scende dall’auto – Ho “rubato” la terza media: all’esame ho rappato».
Come andò?
«Mi diedero sette».
Aveva un talento.
«Sì ma ho avuto anche fortuna. Orasto scoprendo i libri, la poesia: per ora leggo Prévert, l’ho sentito in un film di Alessandro Siani. Ma fuori da Napoli parlo napoletano».
Perché?
«Un po’ per sfida: fuori dalla mia città mi considerano Napoli».
E a Napoli invece chi è?
«Sono me stesso».
Chi sono i napoletani che le piacciono?
«Roberto Saviano, una persona importante per me. E Paolo Sorrentino».
Tornerebbe a Sanremo?
«Sì, non subito, ma sì. La sera della finale ho imparato molto su chi voglio essere: avrei voluto fare il matto e invece ho pensato che non dovevo perché non ero lì solo per me, ma per Napoli, per il napoletano nella musica».
Perché ai ragazzi piace tanto il rap?
«Perché il rap è arrabbiato e loro sono arrabbiati».
Lei parla ai ragazzi con la sua musica e attraverso i social?
«No, io parlo con loro».