Robinson, 10 novembre 2024
Biografia di Valerie Perrin
Colette ha qualcosa in comune con Violette, la protagonista di “Cambiare l’acqua ai fiori”?
«Anche lei sembra una persona semplice, quasi anonima. Una donna senza storia, diciamo noi francesi. Per me è un controsenso. Sono convinta che dietro a ogni persona ci sia un romanzo. Colette ha un suo giardino segreto. E come Violette, anche la protagonista di questo libro esercita un mestiere che gode di poca considerazione sociale. Colette è una calzolaia, un lavoro che sta scomparendo perché la gente ormai preferisce cambiare le scarpe piuttosto che farle riparare. Mi piaceva l’attenzione verso questo accessorio così simbolico. Per capire una persona è spesso utile guardare cosa indossa ai piedi, anche se io ormai porto solo scarpe da ginnastica. Non sopporto più i tacchi alti».
È donna anche la voce narrante, Agnès.
«Inizialmente volevo un narratore. Ma ho cambiato idea quando ho incontrato Agnès Jaoui, una regista francese che adoro. Ero in fase di preparazione del libro. Non faccio mai una scaletta o una struttura ma dedico molto tempo a scavare nei personaggi quasi come un’indagine giornalistica. Per Tatà ho incontrato un calzolaio, un poliziotto e ho parlato con alcune vittime del predatore sessuale che attraversa il romanzo. Ho cambiato il suo nome, ma lui è veramente esistito. Ero in questa fase di ricerche quando ho visto Jaoui. E ho avuto come un’illuminazione. Mi è sembrato evidente che questa storia la poteva raccontare solo una donna».
Una regista di trentotto anni, in crisi dopo essere stata lasciata dal marito, un seducente attore.
«Agnès è distrutta, decide che non farà più la regista. Non voglio spoilerare, ma il giorno in cui lui se ne va, lei pensa di abbandonare il cinema perché ciò che amava di più del suo lavoro era filmare suo marito. Volevo parlare di una donna in crisi, che ha avuto un atteggiamento così romantico, immaginando ruoli su misura per l’uomo che amava. E che poi, senza volerlo, lo fa incontrare con una giovane e bella attrice con cui lui partirà. Agnès dice che quando qualcuno entra in una coppia è sicuramente perché c’era uno spazio vuoto. Eppure grazie alla zia di Gueugnon, e a questa folle indagine familiare, scoprirà se stessa. Tornerà a vivere grazie alla seconda morte di Colette».
Voleva proseguire sul filone poliziesco che si ritrova nel suo precedente libro, “Tre”?
«Nei miei romanzi c’è sempre la ricerca della verità. Era così già dal primo libro,
Il quaderno dell’amore perduto. Sono una grande appassionata di storie di cronaca nera, seguo anche le trasmissioni tv che ne parlano. Amo i romanzi di Simenon e Agatha Christie. Il libro comincia con la polizia che telefona ad Agnès per annunciarle che la sua unica zia Colette è appena morta. Anzi, rimorta visto che Agnès la pensava sepolta al cimitero di Gueugnon da tre anni. La domanda che ci si pone fin dall’inizio del romanzo è: perché far credere alla gente che si è morti? E com’è possibile organizzare la propria scomparsa, soprattutto in una piccola città di provincia? Agnès risale il filo delle risposte insieme al lettore. Scoprendo cose straordinarie che sono successe nella vita di questa zia apparentemente discreta, che non si è mai sposata e non ha avuto figli».
È un grande affresco che si dipana su più epoche.
«Claude dice che è il mio libro più ambizioso. Mai come questa volta mi sono concessa tante libertà, con l’idea delle audiocassette di Colette, gli spezzoni di sceneggiatura di Agnès. Ho costruito il romanzo in due parti. La fiducia dei miei lettori mi ha regalato il coraggio di osare. Sentivo che aspettavano questo libro».
Incontrando i lettori, che cos’ha capito del suo successo?
«La prima cosa è che sentono di conoscere i miei personaggi. Hanno l’impressione di ritrovare qualcuno che hanno già incontrato. Poi credo che amino il lato poetico e sempre ottimista dei miei romanzi, anche se nel racconto introduco sempre momenti duri, persino violenti. L’idea di fondo è, che in qualche modo, sia sempre possibile non essere completamente sopraffatti dal destino. C’è una parte di resilienza in ogni mio libro».
Forse perché anche lei ha avuto tante vite. È stata commessa, segretaria, addetta a un call center, estetista, fotografa di scena, sceneggiatrice...
«Il fatto di aver frequentato tanti ambienti professionali diversi mi aiuta nella scrittura. La gente mi chiede sempre perché sono diventata scrittrice così tardi. Semplicemente perché prima non c’era il tempo. Avevo figli piccoli, dovevo portare a casa uno stipendio. Partivo la mattina presto e tornavo a casa tardi. Quando sei una mamma, la sera c’è un altro lavoro da fare. Preparare il bagnetto, cucinare, prendere il tempo di farsi raccontare la giornata, controllare i compiti. Il mio primo romanzo, Il quaderno dell’amore perduto, l’ho covato per quindici anni. Solo che non era mai il momento. Poi ho conosciuto Claude Lelouch, stravolgendo la mia vita. Abbiamo scritto insieme una sceneggiatura. Mi ha insegnato molto, dandomi lo slancio per finire il romanzo».
Con Lelouch vi siete conosciuti attraverso una lettera.
«Un’amica giornalista doveva incontrarlo per una cerimonia a Deauville e mi ha proposto di scrivere qualcosa su di lui. Senza dirmelo ha stampato il testo e glielo ha dato come una lettera. Lui se l’è ritrovata in tasca qualche settimana dopo. È rimasto colpito e ha cominciato una sorta di indagine per rintracciare l’autrice perché il testo non era firmato. E mi ha ritrovata».
Il cinema è un aiuto nella scrittura?
«Penso per scene più che per capitoli, anche se in questo quarto romanzo ho cominciato una costruzione più letteraria. Di sicuro il lavoro di sceneggiatrice mi ha insegnato a calarmi nei panni dei personaggi, catturando il loro modo di parlare per scrivere dialoghi naturali. Da questo punto di vista il cinema è davvero la migliore scuola del mondo. Detto questo, ci sono molte differenze tra scrittura cinematografica e letteraria. Quando fai una sceneggiatura, ti metti al servizio di qualcuno che ha già una storia in testa e ti chiede di fornirgli l’ossatura su cui poi lavoreranno il regista, gli attori e tanti altri professionisti della produzione. In un romanzo, fai tutto tu – la scenografia, i costumi, le luci, l’atmosfera, i dialoghi, il montaggio – ma è poi il lettore a proiettare sullo schermo la propria storia. Ogni lettore ha la sua Violette, non importa se adesso diventerà un film. Mio marito avrebbe sognato di adattare Cambiare l’acqua ai fiori,ma ha deciso che non era il caso. Mi ha detto: “Non voglio dare l’impressione di speculare su di te. E come regista dovrei per forza tradire il libro”. Così è Jean-Pierre Jeunet, il padre di Amélie Poulain, che farà il film».
È a suo marito che affida la prima lettura del manoscritto?
«Quando ero pronta a fargli leggere Tatà, siamo partiti e ci siamo isolati dal mondo per una settimana. Claude non sapeva nulla del libro. Voleva isolarsi per leggere con calma, senza essere interrotto. Mi ha detto che ho avuto molto coraggio, che è il mio romanzo più folle. Altre volte è stato più severo. Per il primo libro mi aveva suggerito di aggiungere un capitolo, cosa che ho fatto perché aveva ragione».
A proposito di Amélie Poulain, lei vive nel quartiere parigino del film.
«Claude abita in questo quartiere dagli anni Ottanta. Quando l’ho conosciuto, stava finendo di costruire l’appartamento che si trova sotto il Moulinde la Galette dove ormai viviamo da quasi diciotto anni. La mattina per scrivere vado spesso alla Villa des Abbesses, ma in realtà lavoro ovunque. Sui treni, negli aeroporti. Per sono stata molto nella casa in Borgogna. Non ho bisogno di un tavolo. Mi basta mettere il computer sulle gambe e scrivo con accanto un piccolo quaderno su cui ho scarabocchiato alcune frasi o parole».
Ha già in mente il prossimo libro?
«Da molto tempo. Così come avevo in mente Tatàquando stavo scrivendo Tre. Per questo nuovo romanzo so già il luogo, l’atmosfera, la luce, il colore, i personaggi. Inizia a prendere forma. Ci penso continuamente, ho idee ogni giorno. Non devo nemmeno prendere appunti perché è diventata un’ossessione. A un certo punto sarò pronta a partire. Ed è un grande momento di paura».
Paura della pagina bianca?
«Finora non mi è mai successo. Ma meglio toccare legno (fa il gesto per cercare un bordo del tavolo, ndr). Ah ecco questo è il tavolo dedicato all’attore Lino Ventura, siamo capitate bene».