Domenicale, 10 novembre 2024
Cosa vuol dire andare all’inferno?
cosa vuol dire andare (ed essere) all’infernoOltre la teologia. Lo storico Matteo Al Kalak propone una ricca ricerca sul tema facendola diventare una trama che ricostruisce storia e geografia degli inferi e in cui il realismo si miscela con la metafora spiritualeGianfranco RavasiEsplosivo. Massimo Sestini, «Etna (Catania), eruzione del cratere sud», Brescia, Museo di Santa Giulia, fino al 2 marzo 2025 ©Massimo Sestini «Si parla sempre del fuoco dell’inferno, ma nessuno l’ha visto. L’inferno è freddo»: così Georges Bernanos nel suo romanzo Monsieur Ouine (1943). Nel suo capolavoro, Diario di un curato di campagna (1936), lo stesso scrittore francese aveva già spiegato la ragione di quel gelo attraverso la voce del protagonista: «L’inferno è non amare più». Celebre è anche l’asserto del Sartre di Huis-clos (1945): «L’inferno sono gli altri», a cui replicherà Eliot nel suo testo teatrale Cocktail Party (1949) con la battuta: «L’inferno siamo noi stessi». Il più radicale era stato Verlaine nel suo Jadis et naguère (1884): «L’inferno è l’assenza». Ma già il terribile Lucrezio nel I sec. a.C. nel suo De rerum natura scetticamente osservava: «I supplizi che dicono ci siano nel profondo Acheronte sono già tutti nella vita» (III, 978-9).
Nell’impressionante mappa infernale dipinta da Matteo Al Kalak dell’università di Modena e Reggio e tra le centinaia di autori e testi da lui coinvolti non ci sono questi e altri scrittori, abbacinati da quell’abisso di «fuoco e fiamme», come recita il titolo del suo saggio. Una selezione necessaria, perché paradossalmente gli inferi attraggono più degli splendori paradisiaci, forse troppo eterei rispetto alla pesantezza viziosa della nostra storia e della cronaca quotidiana. La rappresentazione fatta da questo raffinato studioso di storia religioso-culturale è, comunque, imponente e transita dai vertici teologici fino alle esagitate apparizioni non solo mariane, affacciate cupidamente su questo pozzo senza fondo, alle leggende popolari e all’iconografia nobile o folclorica.
Sopra ho usato il verbo “dipingere” per definire la ricerca documentaria e ideale di Al Kalak; essa è, infatti, affidata a una sorta di narrazione. Di pagina in pagina si è come attratti da una trama che, attraverso una sequenza di scene descritte con tutte le spezie stilistiche del racconto, ricostruisce «storia e geografia dell’inferno», come promette il sottotitolo. Pur partendo a sorpresa dalla Siberia con un colpo di scena (che non è, però, gelido), l’avvio reale è affidato all’«In principio» delle Scritture Sacre, anche perché il viaggio infernale proposto segue i percorsi cristiani lasciando a parte gli inferi di tante altre religioni (pur non mancando rimandi all’«inferno degli altri»).
Emerge, allora, subito una vera e propria topografia che nei secoli diventa sempre più complessa e minuziosa, ove il realismo descrittivo si miscela con la metafora spirituale. La stessa fisicità adottata anche da Gesù (la Geenna, sede dell’“incineritore” dell’antica Gerusalemme), si trasfigura in simbolo teologico. Vorrei citare solo il capitolo dedicato alle «porte degli inferi», che la tradizione farà varcare al Cristo risorto. La radice ultima di questa immagine è da assegnare a un passo evangelico capitale, quello del cosiddetto “primato di Pietro”: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte degli inferi (in greco «dell’Ade») non prevarranno su di essa» (Matteo 16,18).
Varcare quelle soglie, alla maniera dantesca, non solo per precipitarvi da dannati ma anche per ritornarne come monito ai viventi (si pensi alla parabola del ricco epulone di Luca 16,19-31), è un’altra tappa di questo itinerario non solo culturale ma teologico. Questo aspetto specifico – dopo l’immensa convocazione di autori, testi, iconografie, mitologie, tradizioni che innervano tutte le pagine del saggio – si configura nel capitolo finale «Quel che resta dell’inferno» e nell’epilogo «Libera nos», ove si apre un confronto con la modernità, anzi, con l’attualità (c’è persino Medjugorje, ma anche l’irrompere del demonio nella predicazione di papa Francesco).
La questione teologica ha uno snodo capitale nel crocevia della libertà, come si evince anche dal Catechismo della Chiesa cattolica (1992) che, ricorrendo alle Sacre Scritture, ribadisce l’«appello alla responsabilità con la quale l’uomo deve usare la propria libertà in vista del suo destino eterno» (n. 1036). Come corollario si ha «un pressante appello alla conversione», essendo «la pena principale dell’inferno la separazione eterna da Dio, nel quale soltanto l’uomo può avere la vita e la felicità per la quale è stato creato e alle quali aspira» (n. 1035).
Dall’apparato immaginifico, fisico e spaziale, si viene ricondotti, dunque, allo statuto antropologico esistenziale della persona. Naturalmente attorno si muovono presenze e istanze molteplici: la figura di Satana, la dialettica con la misericordia divina, l’apparente eccesso di una eternità della pena infernale fino all’eventuale esercizio terminale della nostra libertà nell’agonia, visto da qualche teologo come un’estrema possibilità di opzione radicale e conversione che rigetti il male compiuto.
Una sorta di miccia fu gettata nel dibattito da due saggi (1986-87) del famoso teologo svizzero Hans Urs Von Balthasar. In essi si evocavano due tesi opposte presenti già nell’antichità cristiana. Da un lato quella “infernalista” sostenuta da personaggi del calibro di sant’Agostino, san Tommaso d’Aquino e Calvino, e che affermava la certezza di un inferno popolato da dannati. D’altro lato, la tesi dell’“apocatastasi”, ossia della riconciliazione finale universale, per cui l’inferno potrebbe essere vuoto. Giustizia e misericordia divina sono, quindi, in contrappunto col tentativo di proporre almeno «il dovere di sperare per tutti». Discorso, comunque, molto articolato e complesso (si leggano le pagg. 210-212 di Al Kalak).
Per concludere, scegliamo invece l’anticlimax suggerito da un originale scrittore cristiano inglese Clive Staples Lewis. Nelle sue popolari Lettere di Berlicche (1942) ammoniva che «la via più sicura per l’inferno è quella graduale: la discesa dolce, morbida sotto i piedi, senza svolte improvvise, senza cartelli indicatori», in pratica senza l’incubo del fuoco e delle fiamme