Tuttolibri, 10 novembre 2024
Enzo Bianchi su San Paolo
È ritenuto, a torto o a ragione, il fondatore del cristianesimo, ma quello che è certo, è che il cristianesimo non sarebbe mai decollato se non fosse arrivato lui: Saulo, poi universalmente conosciuto come l’apostolo Paolo. «Saulo, detto anche Paolo» (At 13,9), è un ebreo della diaspora, nato a Tarso intorno al 5 d.C., discendente dalla tribù di Beniamino, e la sua formazione è quella di un fedele osservante della Legge mosaica; egli è un uomo ben formato dal punto di vista intellettuale e religioso, fine conoscitore della Scrittura e della tradizione orale del suo popolo, appartenente alla corrente farisaica. Ma il tratto che certamente lo contraddistingue – e che segnerà anche la sua esperienza cristiana – è l’intensità con cui vive la sua appartenenza religiosa: egli ha un rapporto appassionato con il Dio vivente, il Dio dei padri, è per così dire divorato dalla fede nel Dio unico, è «pieno di zelo per Dio» (At 22,3), tanto da apparire a volte radicale, rigorista, assai esigente con sé e con gli altri.È dunque facile comprendere come, una volta che egli viene a contatto con il movimento di Gesù, la sua prima reazione sia quella di odiarlo, ritenendolo una minaccia per le tradizioni dei padri; Paolo ha in orrore i primi seguaci di Gesù e sente il dovere di perseguitare accanitamente la nuova «via» e i suoi adepti. Occorre comprendere in tutta la sua profondità l’odio di Paolo per i primi cristiani: se Gesù si era detto consapevole della novità della sua vita e della sua predicazione, fino ad affermare: «Beato chi non si scandalizza di me» (Mt 11,6), Paolo sperimenta fino in fondo questo scandalo, riassumibile nel fiero orrore per un Messia che muore quale «maledetto che pende dal legno».Ed ecco che intorno al 35 d.C., in questa situazione di avversione radicale da parte di Paolo, in questa sua incolmabile distanza dal Signore Gesù, è il Signore stesso ad avvicinarsi a lui sulla strada di Damasco, gettandolo a terra e accecandolo con una luce sfolgorante: «"Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Risposi: “Chi sei, o Signore?”. Mi disse: “Io sono Gesù il Nazareno, che tu perseguiti"» (At 22,7-8).Come commentare i racconti che tentano di balbettare l’inesprimibile esperienza della morte di Saulo di Tarso e della concomitante nascita di Paolo, «apostolo delle genti» (Rm 11,13), libero prigioniero di Gesù Cristo? Un’eccellente interpretazione è offerta dal cardinale Gianfranco Ravasi nell’ultima delle sue innumerevole pubblicazioni: Ero un blasfemo, un persecutore e un violento, Biografia di Paolo. Il volume, che è un suggestivo e originale itinerario attraverso la figura e gli scritti di Paolo, non poteva che avere inizio dalla celebre scena della caduta da cavallo sulla via di Damasco che segna un prima e un dopo nella vita di colui che da Saulo il persecutore dei cristiani diverrà Paolo l’apostolo delle genti.La ben nota abilità narrativa di Ravasi, unita a una raffinata esegesi e alla capacità di far dialogare i testi biblici con la letteratura di ogni epoca insieme alle opere dei grandi artisti, accompagna per mano il lettore all’attualità di quello che per il cristianesimo non è uno degli apostoli ma l’Apostolo per eccellenza.Ravasi evoca la singolare attualizzazione dell’Apostolo che Pierpaolo Pasolini tratteggiò in un abbozzo di sceneggiatura per un film su San Paolo che mai poté realizzare. Scrive Pasolini: «Paolo è qui, oggi, tra noi. Egli demolisce rivoluzionariamente, con la semplice forza del suo messaggio religioso, un tipo di società fondata sulla violenza di classe, l’imperialismo, lo schiavismo». Gianfranco Ravasi raccoglie la provocazione di Pasolini che mirava a scalzare, provocare e interrogare il cristianesimo attuale con il messaggio ad un tempo teologico e pastorale di Paolo. «L’apostolo – scrive l’autore – ha scosso la nascente cristianità con la potenza creativa del suo pensiero e la passionalità della sua azione».Paolo, “l’altro”, l’apostolo differente, posto accanto a Pietro nella sua alterità, quasi a garantire fin dai primi passi che la chiesa cristiana è sempre plurale e si nutre di diversità. Giudeo della diaspora, originario di Tarso, capitale della Cilicia, salito a Gerusalemme per diventare scriba e rabbi al seguito di Gamaliele, uno dei più famosi maestri della tradizione rabbinica, Paolo era un fariseo, esperto e zelante della legge di Mosè, che non conobbe né Gesù né i suoi primi discepoli, ma che si distinse nell’opposizione e nella persecuzione verso il nascente movimento cristiano. Sulla via di Damasco, però, avvenne anche per Paolo l’incontro con Gesù risorto, la conversione e la rivelazione, infatti, come confessa lo stesso Paolo, «la grazia si è compiaciuta di rivelare in me suo Figlio» (Gal 1,15-16).Paolo si definisce un “aborto” (1Cor 15,8) rispetto agli altri apostoli che avevano visto il Signore Gesù risorto, ma chiedeva di essere considerato inviato, servo, apostolo di Gesù Cristo al pari loro, perché aveva messo la sua vita a servizio del Vangelo, si era fatto imitatore di Cristo anche nelle sofferenze, si era prodigato in viaggi apostolici in tutto il Mediterraneo orientale, era abitato da una sollecitudine per tutte le chiese di Dio. La sua passione, la sua intelligenza, il suo impegno ad annunciare il Signore Gesù traspaiono da tutte le sue lettere e anche gli Atti degli apostoli ne danno sincera testimonianza. È lui, per sua stessa definizione, «l’apostolo delle genti» come Pietro è «l’apostolo dei circoncisi» (Gal 2,8).Non a caso la tradizione liturgica latina ha congiunto in un’unica celebrazione la festa di Paolo e Pietro uniti nel martirio a Roma, entrambi discepoli e apostoli di Cristo, eppure così diversi: Pietro un povero pescatore, Paolo un rigoroso intellettuale; Pietro un giudeo palestinese di un oscuro villaggio, Paolo un ebreo della diaspora e cittadino romano; Pietro lento a capire e a operare di conseguenza, Paolo consumato dall’urgenza escatologica… Dice un prefazio gallico del VII secolo: «Pietro ha rinnegato per credere meglio, Paolo è stato accecato per vedere meglio… l’uno apre, l’altro fa entrare: entrambi ricevono il Regno eterno».Suggestive le pagine dedicate da Ravasi all’espressione autobiografica paolina «sono stato afferrato da Cristo Gesù» (Fil 3,12). Paolo sperimenta di essere amato e chiamato da Dio, attraverso Gesù, proprio mentre egli odia quest’ultimo con tutte le sue forze, e tale evento infrange tutti i suoi meccanismi di difesa, fino a renderlo un’altra persona: egli si converte e inizia ad amare con passione Gesù Cristo, «il suo Signore» (cf Fil 3,8). Essere amato nella propria capacità di bene, nella propria parte di luce è possibile e umanamente abbastanza consueto, ma essere amato nel proprio peccato, nella propria oscurità, anzi nel momento stesso in cui si odia l’altro, è inaudito: eppure è proprio questo che la relazione con Gesù ha permesso a Paolo di sperimentare, è questo che lo ha sconvolto fino a cambiarlo! Questo è ciò che egli si impegnerà a testimoniare con tutta la sua vita, il vero e proprio fondamento della sua evangelizzazione, così espressa dall’apostolo nella piena maturità.