La Lettura, 10 novembre 2024
Gabriele Salvatores farà un film da una storia di Fellini
«Quando mi è stato proposto di realizzare un film a partire da una storia di Federico Fellini e Tullio Pinelli, per prima cosa ho avuto paura». Poi la paura si è trasformata in meraviglia e quindi in forza creativa. Così è nato Napoli – New York, nuovo film del premio Oscar Gabriele Salvatores, prodotto da Paco Cinematografica con Rai Cinema, nelle sale dal 21 novembre per 01 Distribution. Nel cast Pierfrancesco Favino e l’americano Omar Benson Miller. Protagonisti i piccoli Antonio Guerra e Dea Lanzaro.
La storia che Fellini e Pinelli scrissero nel 1948 con l’obiettivo (naufragato) di farne un film è ambientata a fine anni Quaranta, «prima a Napoli, poi su un piroscafo in viaggio per New York e infine nella grande metropoli». Carmine e Celestina sono due scugnizzi napoletani di 12 e 9 anni senza famiglia. Tra le macerie del dopoguerra cercano di sopravvivere come possono. Una notte, quasi per caso, si imbarcano da clandestini per raggiungere la sorella di Celestina, emigrata a New York mesi prima...
Il trattamento (elaborazione narrativa che segue il soggetto e precede la sceneggiatura) è stato rinvenuto nel 2005 in un baule di cui Pinelli, leggendario sceneggiatore de La dolce vita e 8 ½, si voleva sbarazzare. Cinquantotto fogli dattiloscritti, già usati su un verso, dimenticati per decenni e salvati dall’oblio da Augusto Sainati che nel 2013 ha pubblicato il testo in un volume Marsilio, ora proposto in una nuova edizione con uno scritto di Salvatores (in libreria dal 22 novembre).
Quella di Napoli – New York è una lunga storia a lieto fine, scrive Sainati, «un gioiellino fortunosamente ritrovato» ha incontrato un regista premio Oscar e da quell’incontro è nato un film. E non solo. In parallelo è nata anche una graphic novel scritta dal francese Jean-David Morvan e disegnata da Ste Tirasso (una produzione di Arancia Studio, che esce il 19 per Star Comics). Due elaborazioni diverse ma affini del soggetto di partenza, che i produttori del film hanno iniziato a rincorrere 11 anni fa. «Potrò sembrare sdolcinato ma questo mi commuove», dice Gabriele Salvatores a «la Lettura», che ha incontrato il regista durante Lucca Comics & Games: «Due grandi autori hanno scritto qualcosa che stava scomparendo... Ma anni dopo, la storia viene raccolta da qualcun altro che la fa rinascere».
Quando ha superato la paura iniziale e ha deciso di buttarsi nel progetto?
«Mi è bastato leggere il testo, un racconto estremamente dettagliato, con personaggi e situazioni ben descritti e addirittura parecchi dialoghi. Una favola molto legata alla realtà, scritta quando Fellini non aveva ancora esordito alla regia e firmava sceneggiature per altri. Aveva appena collaborato a Paisà di Roberto Rossellini, e cita la pellicola nel soggetto (appare pure nel film). Siamo nel territorio del realismo magico, ma non ci sono ancora gli elementi surreali e onirici caratteristici la sua produzione. Sembra più un film di Vittorio De Sica che del Fellini che conosciamo e amiamo. Mi sono trovato di fronte a una storia avventurosa, divertente, commovente; a una serie di elementi che mi appartengono e avevo già toccato nei miei film: la presenza dei bambini (nati a Napoli, come me), il viaggio, la solidarietà, il coming of age, il cambiamento... Dovevo provarci».
Come ha lavorato alla sceneggiatura?
«Ho seguito il più fedelmente possibile la storia di Fellini e Pinelli, facendola mia. Erano autori straordinari: ogni volta che potrebbe esserci un momento di stasi, inventano qualcosa di nuovo che sposta l’attenzione... Ho mantenuto i tre atti per realizzare un film classico, come quelli che da ragazzo mi hanno emozionato e spinto a fare il regista. In un momento pervaso da rancore, rabbia, odio ho voluto fare un film provocatoriamente tradizionale. Potrà essere accusato di buonismo ma mi permette di dire che gli esseri umani possono essere buoni e solidali, proprio come le persone che aiutano Carmine e Celestina».
Ha fatto dei cambiamenti?
«Nella parte iniziale ho addirittura seguito alla lettera le battute suggerite dal trattamento. Con l’arrivo a New York mi sono preso delle libertà e ho cambiato un po’ il finale. Nel racconto del 1948, l’America e gli americani sono avvolti da un’aura benevola che, oggi che conosciamo meglio gli Stati Uniti e il nostro sguardo è più disincantato, non funziona più».
Come ha rappresentato New York?
«Le scene ambientate a Napoli, girate proprio lì, sono più realistiche, mostrano la situazione in cui vivono i bambini. New York è più magica e favolistica. La chiave di lettura è arrivata da Fellini. Nelle note ammette di non essere mai stato negli Stati Uniti e che la New York che descrive è frutto dell’immaginazione. Il suo sguardo coincide con l’incanto dei bambini che vedono la città per la prima volta. Quando poi visitò davvero gli Stati Uniti, Fellini scrisse: “È dolce New York, violenta, bellissima. terrificante: ma come potrei raccontarla? Solo qui, nel mio Paese, potrei tentare l’impresa. A Cinecittà nel Teatro 5”. Si trattava di creare una New York credibile ma non necessariamente realistica. Per farlo abbiamo utilizzato gli effetti speciali come Fellini avrebbe utilizzato il Teatro 5. E, con la macchina da presa sempre all’altezza dei bambini, abbiamo ricreato la New York anni Quaranta, sulla base di studi approfonditi delle architetture del tempo».
Dove?
«Tra Trieste e Rijeka (Fiume), in Croazia, dove si trovano due porti austro-ungarici molto belli che richiamano le costruzioni in mattoni di una New York che non esiste più... Come gli edifici neoclassici di Trieste: il tribunale del film è in realtà una chiesa, le cui colonne e la scalinata ricordano la corte newyorkese».
Le scenografie di Rita Rabassini si amalgamano con gli effetti visivi supervisionati da Victor Perez...
«Amo gli effetti speciali che in qualche modo non si vedono, come la piuma che cade in Forrest Gump. Abbiamo scene vere fino ai 4-5 metri di altezza, dove gli attori si muovono e interagiscono con gli oggetti. Il resto sono effetti speciali. In entrambi i casi si tratta di un lavoro artigianale, perché ci sono due prerogative umane che le tecnologie e le intelligenze artificiali non potranno mai raggiungere: il dubbio e il desidero».
La lavorazione è stata complicata?
«Difficilissimo è stato trovare una nave degli anni Quaranta. Quella che nel film attraversa l’Atlantico fu di proprietà di Tito, ormeggiata in Croazia vicino a Rijeka. Ce l’hanno consegnata a tre giorni dalle riprese e abbiamo dovuto ripulire e ricostruire tutti gli interni. Gli effetti speciali uniti alla riprese dal vero danno quell’idea di magia che riporta al Teatro 5».
Stefano Germinal e Manuel De Pandis hanno realizzato anche un documentario sugli effetti visivi (Vfx). Solo in questo reparto hanno lavorato 167 persone e cinque diverse compagnie da India, Canada, Regno Unito, Italia...
«La parte di New York è stata realizzata da una società di russi e ucraini che vivono a Belgrado, Cicero. L’arte ha anche il potere di unire, oltre i conflitti».
Il passaggio tra Napoli e New York avviene anche attraverso la musica.
«Oltre alle musiche originali di Federico De Robertis, ci sono tante canzoni. Per Napoli, brani della tradizione antica, ripresi dalla Nuova compagna di canto popolare. Negli Stati Uniti, musiche dell’epoca con incursioni contemporanee: Somewhere di West Side Story cantata da Tom Waits; il brano di protesta Pay Me My Money Down, successo di Pete Seeger, nella versione di Bruce Springsteen; e i Procol Harum, con A Salty Dog».
Come è andata la scelta degli attori?
«Con Pierfrancesco Favino ci siamo innamorati quando abbiamo girato una serie di spot per Barilla. Gli ho proposto il primo personaggio adatto a lui, quello di Domenico Garofalo (italiano che vive a New York, commissario di bordo che aiuta i bambini e vorrebbe adottarli, ndr): ha studiato il modo in cui gli immigrati italiani pronunciavano l’americano. Omar Benson Miller è il cuoco di bordo che protegge i bambini. È nero anche nel trattamento, un’intuizione bellissima: tra emarginati ci si capisce e aiuta. Mi è sempre piaciuto, ha lavorato con Spike Lee ed è molto impegnato politicamente. Lo stupiva il fatto che interagissi con gli attori come un musicista jazz e lasciassi che rielaborassero le battute. Nulla a che vedere con il metodo americano».
E i bambini?
«Con loro questo è ancora più importante: non recitano ma vivono quello che fanno. Non è un caso che in inglese e in francese recitare si dica to play o jouer: giocare. Per trovare i nostri Carmine e Celestina, Anna Pennella che ha fatto il casting con Francesco Vedovati ha scandagliato teatri di dilettanti, ma anche i quartieri e le scuole più difficili, in una città come Napoli in cui tutti recitano. Sono stati provinati 800 bambini».
Carmine e Celestina sono intraprendenti, affrontano cose più grande di loro ma non si fermano davanti a nulla...
«Come nelle fiabe di Hans Christian Andersen o dei fratelli Grimm: storie cattivissime portatrici di temi importanti».
Fellini e Pinelli scrivono: «Ecco: ora i due scugnizzi hanno raggiunto New York; hanno compiuto, con la loro infantile semplicità, un’impresa che migliaia di uomini hanno tentata invano. Essi non se ne rendono affatto conto; e se le cose nuove e strane che vedono – gli altissimi grattacieli, le ferrovie aeree, il traffico vertiginoso – attirano la loro divertita curiosità, sono ben lontani dal sentirsi sperduti o impauriti». Il cuore del film sta in questa «infantile semplicità»?
«Assolutamente. Le parole sono potenti, sopravvivono al tempo e si fanno ponte tra cose anche molto diverse e distanti. Per questo bisognerebbe stare molto attenti a come si parla: dovremmo dirlo ai nostri politici. Se Fellini e Pinelli avessero scritto parole meno emozionanti e pensate, non sarebbero arrivate fino a noi. Rilette adesso assumono anche nuovi valori. Ci ricordano, tra l’altro, come una volta eravamo noi i migranti, gli stranieri, i diversi. Trovo bellissimo il collegamento che si è creato tra loro e noi, eredi di quel cinema. Incontrai Fellini una sola volta in un agosto caldissimo mentre ero al montaggio del mio primo film, Sogno di una notte d’estate (1983). Nei corridoi di Cinecittà vidi un uomo affaticato che si reggeva alla parete. Mi avvicinai per chiedergli se gli servisse aiuto e lo riconobbi. “Lei chi è?”, mi chiese. “Gabriele Salvatores e faccio il regista”. “Il regista? Coraggio...”, rispose e se ne andò».
La vicenda di «Napoli – New York» dimostra la forza delle storie?
«Il cinema che racconta storie è quello con cui sono cresciuto e che mi piace. Puoi farlo in molti modi – il mio prossimo film, ad esempio, sarà completamente non lineare – ma l’importante è raccontare una storia. È un bisogno dell’uomo. Certo, fin dalle origini, il cinema ha una doppia anima, da un lato i Lumière che mostrano l’uscita degli operai dalla fabbrica e dall’altro Georges Méliès che viaggia sulla Luna... Anche il cinema poetico e astratto è fondamentale. Ma una storia raccontata attraversa il tempo, e questa lo dimostra: la puoi riprendere e rielaborare. La forza delle storie sta proprio nel fatto che si possono rigenerare».