La Lettura, 10 novembre 2024
Taiwan. I piani dell’attacco
«Taiwan sarà invasa entro l’anno». La Cina comunista, altrimenti, «perderà la faccia»: smacco intollerabile per quella cultura. Le previsioni dell’intelligence occidentale e vaticana erano martellanti e unanimi. I rapporti che arrivavano sul tavolo di Pio XII e del suo segretario di Stato, Domenico Tardini, prevedevano un attacco a breve contro l’isola dove si erano rifugiati i nazionalisti nemici di Mao Zedong. «Ambienti dell’esercito sono stati i primi a avvertire che c’era da aspettarsi l’attacco entro la primavera». E poi: «...La sensazione generale è che, nonostante i ritardi, i comunisti cinesi attaccheranno entro fine anno. Taiwan sta diventando una seria questione di “faccia” per i comunisti cinesi, perché un fallimento sarebbe un colpo alle speranze di consolidare il regime». «Osservatori neutrali sostengono che Taiwan può resistere ancora un anno. Ma se c’è l’aiuto dei russi, l’invasione può cominciare rapidamente...». «L’invasione di Taiwan è più difficile per i comunisti. I Nazionalisti hanno una superiorità navale e aerea. E geograficamente hanno un vantaggio». E ancora: «All’inizio dell’anno, i comunisti hanno annunciato al massimo livello e con grande fiducia che distruggeranno i resti del Kuomintang a Taiwan e Hainan entro il 1950».
Sono spezzoni del «Rapporto Politico numero 9», datato 22 aprile 1950, che in realtà potrebbero essere stati scritti in questi mesi di tensioni crescenti nel Mar Cinese Meridionale. Fu inviato dal sacerdote Martin Gilligan, braccio destro dell’ultimo nunzio in Cina, monsignor Antonio Riberi, all’allora segretario di Stato vaticano, Domenico Tardini, in inglese. È custodito nell’Archivio apostolico vaticano. In tre delle venticinque pagine risalenti a settantaquattro anni fa, si riportavano le previsioni e le analisi sui «piani comunisti per un’invasione di Taiwan». Tra il 1949 e il 1951 di rapporti ne arrivarono a ripetizione, e a cadenza quasi mensile, prima da Nanchino e poi da Hong Kong. Dettagliati, e sempre più drammatici. Allora si dava per scontato che la caduta fosse questione di settimane, al massimo di mesi, e solo perché la stagione dei tifoni magari suggeriva di non attaccare in estate ma in autunno inoltrato. Il destino di quella che si definiva «Repubblica della Cina» dopo avere combattuto le truppe di Mao e perso, sembrava segnata. Anche perché gli Stati Uniti esitavano a riconoscere l’importanza strategica di quel caposaldo incastonato nel Mar Cinese Meridionale.
Dal 1949 fino alla metà del 1950, Washington aveva ripetuto che non era prevista una sua missione a Taiwan, allora chiamata Formosa. Non solo. La Gran Bretagna aveva subito riconosciuto il nuovo regime comunista, con un occhio agli affari di Hong Kong, allora ancora una sua colonia. E altre nazioni europee, a cominciare dall’Italia, non sembravano interessate a stabilire relazioni diplomatiche con i seguaci di Chiang Kai-shek. La situazione si stava rapidamente deteriorando per le missioni della Chiesa cattolica: espropri, requisizioni, torture, espulsione di sacerdoti stranieri. Ma la Roma papalina cercava un modus vivendi, inutilmente.
Riletti oggi, quei documenti custoditi nell’Archivio apostolico vaticano fanno un po’ impressione. Non tanto perché a distanza di decenni la questione di Taiwan rimane irrisolta e più scottante che mai. A colpire è il contorno geopolitico che la storia dell’isola racconta, allora come oggi. Nei rapporti affiora in continuazione l’esigenza di un «Patto del Pacifico» che al tempo doveva coinvolgere alcuni Paesi, con Australia e Filippine in prima fila, in chiave anticinese: proprio come i progetti che sembrano prendere forma oggi, di una sorta di «Nato asiatica» con l’aggiunta di Giappone, Corea del Sud, Nuova Zelanda, e altre nazioni, per contenere l’espansionismo territoriale di Xi Jinping.
La differenza è che allora il governo di Taipei faceva sapere alle potenze occidentali di prepararsi a compiere operazioni navali e aeree di disturbo contro la Cina continentale. E arrivava a sostenere che era in grado di sferrare un attacco per rovesciare il regime comunista, anche se lo faceva tra lo scetticismo generale, perché in molti si chiedevano piuttosto quanto a lungo potesse resistere.
Oggi la situazione si è rovesciata. Le incursioni aeree cinesi nel cielo taiwanese nel 2024 sono passate da 36 a 193 al mese; e il numero di navi che continuano a fare esercitazioni intorno all’isola è passato da 142 a gennaio a 282 ad agosto. E quando a fine settembre Xi Jinping ha ribadito: «Ci opporremo in modo risoluto all’indipendenza di Taiwan. La riunificazione è aspirazione comune di tutti i cinesi. Nessuno può fermare la storia», la memoria è andata a quei «piani d’invasione» dell’aprile del 1950. Ma con qualche brivido in più sulla possibilità che il baluardo anche simbolico dell’anticomunismo asiatico possa trasformarsi nell’«Ucraina dell’Asia», invasa presto dalla Cina come ha fatto la Russia in Europa.
La sindrome dell’abbandono rimbalza in continuazione nelle dichiarazioni dei governanti taiwanesi. La mancanza di fiducia nei confronti del Vaticano di Papa Francesco nasce dalla sensazione che la Santa Sede possa sacrificare il rapporto storico sull’altare di nuove relazioni diplomatiche con Pechino, interrotte nell’autunno del 1951 per ordine di Mao: anche se al momento non sono in programma. Non a caso l’attuale capo della flotta militare dell’isola, Tang Hua, ha sostenuto di recente in un’intervista al settimanale inglese «The Economist» che la Repubblica Popolare cinese sta mettendo in pratica «la strategia dell’anaconda», per soffocare lentamente Taiwan proprio come fa l’enorme serpente con le sue prede. Le stesse manovre militari della flotta e dell’aviazione di Pechino nei cieli e nelle acque intorno all’isola non sono solo intimidazioni, però. Oltre a tenere sotto pressione la popolazione e dimostrare che l’attacco è ormai solo questione di tempo, servono a mettere alla prova il grado di solidarietà degli alleati del governo di Taipei, a cominciare dagli Stati Uniti.
Anche nel «Political Report n. 9» del 1950 la pressione era simile. E identici i timori che la Realpolitik di Washington finisse per abbandonare al suo destino le truppe del «Generalissimo», Chiang Kai-shek. C’erano state alcune «piccole invasioni» nell’isola di Hainan, allora uno dei due obiettivi principali del regime insieme a Taiwan. E si parlava della possibilità che «The Reds», i Rossi, come erano definiti da monsignor Gilligan gli uomini di Mao, «possano ottenere aeroplani dalla Russia o da fuori». Si accennava a voci che «i Comunisti abbiano comprato mezzi da sbarco moderni a Hong Kong», e cioè dagli inglesi. Insomma, tutto o quasi sembrava pronto per l’assalto. Ma per l’Unione Sovietica, un appoggio dichiarato avrebbe significato aprire un fronte diretto con gli Stati Uniti. Per questo, si ammetteva «la possibilità che Taiwan resista ancora almeno per un anno, durante il quale Chiang continuerà a cercare un aiuto esterno».
L’«aiuto esterno» era quello americano, in quei mesi considerato ancora improbabile. Il presidente Harry Truman tendeva a escludere qualunque prospettiva di sopravvivenza di Taiwan; né coglieva un vero interesse strategico per gli Stati Uniti. I rapporti sull’Asia che aveva ricevuto nel marzo del 1950 dal suo ambasciatore personale Philip Jessup non parlavano della Cina: un’omissione significativa.
Quello arrivato in Vaticano, invece, così come i precedenti, approfondivano i temi della carestia che stava uccidendo milioni di cinesi; della personalità di Mao; della sua visita di oltre due mesi in Urss con il primo ministro Zhou Enlai, con la quale si era saldata l’alleanza con i sovietici; e dell’infiltrazione massiccia di «consiglieri russi» in Cina. Il Paese di Mao, a quel tempo, si preparava a diventare una colonia ideologica ed economica di Mosca: il contrario di quanto sembra avvenire oggi. Per il Vaticano l’interesse vitale era lo sradicamento della religione in nome dell’ateismo di Stato; per gli Usa, invece, la priorità era militare e strategica.
Ma sarebbero bastate poche settimane per cambiare radicalmente l’atteggiamento statunitense. Il «Report n. 1» recapitato in triplice copia a Tardini dal King’s Building il 7 maggio del 1951, con un cablogramma della «Cathwell Hong Kong», mostrava un quadro totalmente nuovo. Nell’appendice del rapporto i primi sei punti erano riservati alle persecuzioni contro i cattolici da parte del regime maoista. Al settimo punto si parlava dei rapporti tra Stati Uniti e «il governo di Chiang Kai-shek», e al tredicesimo del «Pacific Pact». Si trattava di temi decisivi. Nel giugno del 1950 scoppiò la guerra tra le due Coree. E la situazione in bilico della Corea del Sud, alleata dell’America, impose a Washington di rivedere le coordinate della sua politica asiatica. Ormai, la questione di Taiwan stava diventando uno dei punti strategici della Guerra fredda. Il «Rapporto numero 10» del 22 giugno 1950 riportava un discorso del numero due del regime comunista nel quale si evocavano le «difficoltà temporanee» nella strategia cinese. La prima era «la conquista finale di Taiwan». Dipendeva dal fatto che per l’America quell’isola era diventata il «simbolo della resistenza anticomunista».
Nel «Rapporto numero 11» del 12 agosto 1950, era la Cina a confermare l’intreccio. Corea e Taiwan, secondo Pechino, erano «entrambe il simbolo dell’aggressione imperialista degli Stati Uniti». Il «regime rosso» faceva appello a «resistere all’aggressione americana in Corea e a sostenere i Volontari del Popolo» accorsi in aiuto del Nord. «In Cina», si poteva leggere nel documento, «la linea ufficiale è che l’America ha attaccato la Corea del Nord e che la Cina non partecipa al conflitto ma che volontari cinesi stanno offrendo spontaneamente il loro impegno contro l’imperialismo». E, di nuovo, quell’allarme vecchio di settantaquattro anni risuona nelle cancellerie occidentali, con il regime della Corea del Nord che manda soldati in aiuto ai russi in guerra contro l’Ucraina e, di fatto, contro la Nato; e mentre il destino di Taiwan continua a essere in bilico come forse raramente era avvenuto in passato. La situazione, in quel momento, stava diventando conflitto anche ideologico.
Nel giugno del 1950, Truman, dopo avere eluso per almeno due anni il problema, dichiarò che «l’occupazione di Formosa da parte dei comunisti sarebbe una minaccia diretta alla sicurezza dell’area del pacifico e alle forze statunitensi in quell’area». Per questo decise di assicurare «assistenza militare», senza però accettare la sovranità a Taiwan: l’ombra della Cina maoista era troppo ingombrante per legittimare il suo nemico. «È questione di elementare sicurezza», spiegò Truman per motivare il cambio di strategia. Gli aiuti che decise di mandare furono motivati con implicazioni squisitamente militari, anche se in realtà era solo una finzione necessaria per velare le preoccupazioni politiche. Non a caso, il governo di Taipei di Chiang Kai-shek insisteva sul carattere politico dell’«assistenza» statunitense; Washington, al contrario, su aiuti militari e circoscritti.
Le condizioni poste dall’America nell’accordo diplomatico stipulato il 9 febbraio del 1951, e riportate nel «Rapporto numero 1» spedito alla Santa Sede da Hong Kong, erano stringenti. Le armi dovevano servire a proteggere i soldati americani di stanza a Taiwan, e obbligavano a usare «il materiale di guerra solo per la sicurezza interna o una legittima autodifesa». In quel momento si trattava di «neutralizzare» Taiwan senza irritare eccessivamente Urss e Cina comunista. Era un esercizio di cautela e diplomazia, giustificato dal contesto internazionale.
Ma, di nuovo, non si può non cogliere la similitudine con la fase che si sta attraversando, su uno sfondo totalmente mutato e con le alleanze a guida Usa, se non indebolite, certamente contrastate. Con gli Stati Uniti divisi al proprio interno e in crisi di leadership mondiale. E con Cina e Federazione Russa accomunati quasi di rimbalzo da un’ostilità e un revanscismo antioccidentali che rimandano al passato. È una realtà che restituisce a quel «Rapporto Politico n. 9», con i piani di invasione di Taiwan, un’attualità sinistra.