il Fatto Quotidiano, 10 novembre 2024
Napoli, parla padre Alex Zanotelli
Padre Zanotelli, la piazza di Napoli contro la violenza è stata animata da tante associazioni attive sul territorio, ma pochi cittadini comuni. Qualche centinaio di persone. Poche?
L’obiettivo era proprio raccogliere il mondo associativo e le persone che lavorano nelle realtà più degradate per lavorare a una piattaforma di richieste da sottoporre a chi governa la città. La situazione è insostenibile. Abbiamo fatto saltare fuori tante idee che saranno raccolte in un appello agli amministratori di Napoli. Su questa base convocheremo una grande manifestazione cittadina alla fine del mese. Allora dovremo essere in tanti per farci ascoltare dal sindaco Manfredi, dal prefetto e dal presidente De Luca. Perché nel prosperare della violenza c’è una responsabilità politica che fa spavento.
Quali sono le colpe di chi governa?
Le faccio un discorso semplice, quasi banale. Qui in Piazza Sanità, nel rione dove vivo, ci sono due – ripeto due – vigili urbani a presidiare un territorio di 70 mila persone. Le pare normale? La situazione educativa è un disastro. Avevamo un unico istituto superiore, il Caracciolo, che era un gioiello e formava 600 studenti. Poi è stato aggregato a un’altra scuola, è stato praticamente abbandonato e ha fatto registrare cifre spaventose: il 73% di bocciati e il 50% di evasione scolastica. Il problema è politico e il primo dramma è quello educativo, in queste condizioni non ci si può sorprendere se poi i ragazzini crescono con questi destini.
In piazza il sindaco c’era, insieme a parte della giunta. Pensa che le vostre proposte le ascolterà davvero?
Non penso che sia opportunismo, ma chi governa questa città è sinceramente in difficoltà e credo non sappia bene dove mettere le mani. L’amministrazione boccheggia. È il momento giusto, con un po’ di pressione, per farsi ascoltare.
Lei ha denunciato anche la parte della città più affluente, la borghesia napoletana e la sua indifferenza per quello che succede nei quartieri “di sotto”.
Sono missionario, ho vissuto per 12 anni in una baracca a Korogocho e ho visto l’assurdità di Nairobi, dove il 70% delle persone vive segregata rispetto alla città dei ricchi. Anche a Napoli, con le dovute proporzioni, ci sono due anime: la città bene e la città “malamente”. La borghesia napoletana deve prendere sul serio questa spaccatura. Riguarda anche loro: i ricchi, chi ha il potere economico e politico; se la città povera esplode, le conseguenze le pagheranno anche loro.
Nove anni fa Sanità piangeva la morte di Genny Cesarano. In tutto questo tempo non è cambiato nulla?
È così, ma non possiamo rinunciare alla speranza di cambiare. Non è utopia, chiediamo cose concrete. Soprattutto uno sforzo in campo educativo, investire sugli asili, sulle scuole, sugli assistenti sociali.
La stessa Sanità è stata protagonista con don Antonio Loffredo di un’esperienza sociale bella e di successo: la cooperativa La Paranza, che ha offerto un’opportunità di lavoro a tanti ragazzi, grazie alla valorizzazione delle catacombe di San Gennaro. Modelli di questo tipo non sono replicabili?
Il modello Sanità è stato “pompato” per bene. L’apertura delle catacombe di San Gennaro è stata un’operazione positiva, che ha portato anche molto turismo. Il problema è che poi il turismo diventa il tappeto rosso sotto al quale si nasconde tutto il resto. Io vivo qui da 15 anni e vedo che il clima degrada costantemente.
E le armi finiscono in mano a ragazzini sempre più piccoli.
Anche 12, 13, 14 anni. È chiaro che i ragazzini, se hanno di fronte a sé esempi e modelli di abbandono, incuria e brutalità, finiscono per fare il cavolo che vogliono. E viviamo in un sistema che manda sempre gli stessi messaggi: l’importanza di apparire, “essere qualcuno”.