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 2024  novembre 10 Domenica calendario

È impossibile afferrare il significato della musica in maniera razionale

Verdi e Mozart sono due giganti della musica profondamente legati tra loro. La classicità del primo affonda le sue radici in quella del secondo. Non dimentichiamo che Verdi, pur essendo cresciuto nel Nord Italia ed essendosi dunque nutrito della musica di Schubert, Mozart, Haydn e Beethoven, ha avuto una formazione iniziale con Vincenzo Lavigna, musicista della scuola napoletana, erede della grande tradizione armonica e contrappuntistica di Napoli.
Verdi è un compositore classico per eccellenza, ma è stato a lungo vittima di un equivoco: l’associazione con un vago e non meglio identificato mondo verista, un universo di passioni forti e melodrammatiche che alimenta lo stereotipo dell’Italia come la terra di pizza e mandolino, della mamma e del temperamento. Questa errata percezione ha danneggiato la sua reputazione, fino a oggi. Speravo che il bicentenario della nascita avrebbe portato a una rivalutazione critica della sua musica, come è avvenuto per altri grandi compositori. Purtroppo, mentre studi approfonditi sono stati dedicati a Rossini, Gluck, Mozart e alla prassi esecutiva storica, Verdi non ha ricevuto la stessa attenzione.
Sono state fatte attente ricerche anche sulla prassi esecutiva del Cinquecento, Seicento e Settecento, e sono nati gruppi ed ensemble musicali che si propongono di riprodurre, in maniera filologicamente esatta, le esecuzioni così come erano fatte nei secoli scorsi. È pura illusione credere di poter resuscitare il passato come uno zombie, replicando fedelmente i gusti, le abitudini e il senso del tempo di secoli fa. Verdi rimane vittima di una tradizione stagnante. Come un’opera d’arte ottiene una varia ricezione a seconda dell’epoca in cui viene osservata, così anche la musica di Verdi dovrebbe essere reinterpretata per parlare alle nuove generazioni.
Questa evoluzione dell’interpretazione naturalmente va sempre misurata con il rispetto delle intenzioni dell’autore.
La fedeltà al testo è per Verdi infatti un punto fondamentale, e lo sappiamo attraverso le sue lettere, le sue lamentele, i suoi appelli ai direttori d’orchestra e ai cantanti. «Fate esattamente quello che io ho scritto» è la sua richiesta costante. Questo però non significa riproporre freddamente ciò che il testo prescrive, bensì cercare attraverso le note composte dall’autore una verità che le trascende.
Ma noi possiamo portare Verdi nel futuro restituendogli la dignità e il rispetto che lui desiderava. C’è una sua lettera che vale la pena riportare, almeno in parte, e che spiegabene il punto di vista del compositore. È datata 11 aprile 1871 ed è indirizzata a Giulio Ricordi. Verdi a un certo punto scrive che lui si vuole soffermare sulla divinazione. Sono interessanti le parole che usa: «Sulla divinazione dei direttori, e sulla creazione a ogni rappresentazione».Sostiene che questo principio, quello della divinazione
e della creazione da parte dell’interprete, conduce «al barocco, ed al falso», usando queste parole: «È la strada che condusse al barocco ed al falso, l’arte musicale, alla fine del secolo passato, e nei primi anni di questo, quando i Cantanti si permettevano di creare, come dicono ancora i francesi, le loro parti, e farvi in congruenza ogni sorta di pasticci e controsensi. No: io voglio un solo creatore, e mi accontento che si eseguisca semplicemente ed esattamente quello che è scritto; il male sta che non si eseguisce mai quello che è scritto!». Quando Verdi dice «esattamente» significa «cercate di capire quello che io intendo dire». L’interprete deve cercare ciò che c’è dietro le note, ma rispettandole, non cambiandole a capriccio e creando a suo gusto. È un po’ come i maestri sufi, quando dicevano: «Se vedi lo zero non vedi nulla. Ma se guardi attraverso lo zero vedi l’infinito».
È questa verità che rappresenta l’infinito, che raffigura lo spirito ed è cangiante, proprio perché così vasta. Probabilmente è cangiante anche in colui che ha scritto quelle note. Però il nostro compito è quello di leggere o intuire l’orizzonte che vi sta dietro, senza cambiarle, tagliarle o stravolgerle, perché diversamente significherebbe uccidere la volontà dell’autore. Quindi il nostro compito è, attraverso quelle note scritte, capire che cosa c’è dietro a esse.
Chiariamo meglio il concetto di capire la musica. Io, come musicista, sono come un architetto, un ingegnere. Quando prendo in mano la partitura di una sinfonia di Beethoven, Brahms o Bruckner, grazie alle mie competenze so esattamente com’è costruita, colgo la forma della composizione, il suo concetto armonico, il suo contrappunto, la sua orchestrazione, la sua dinamica. Ma quello che c’è dietro è assolutamente incomprensibile. Per tutti. Io posso vivere la musica che interpreto come sensazione, mantenendo chiara nella mia testa la forma del linguaggio musicale, ma non la posso comprendere a livello razionale.
Quando dirigo, non è che capisco la Nona di Beethoven: cerco piuttosto di dare ai suoni una dimensione attraverso il segno scritto, attraverso la mia sensibilità, ma è qualcosa che comunque rimane un mistero.
Pensiamo alle parole di Dante, che nella Commedia si è occupato praticamente di qualsiasi cosa. Dante dunque scrive, nel Paradiso, alcuni versi importantissimi: «E come giga e arpa (la giga come strumento, non come danza), in tempra tesa/ di molte corde (cioè quando le corde dell’arpa sono ben tese), fa dolce tintinno/ a tal da cui la nota non è intesa (danno un suono piacevole a chi non comprende la nota),/ così da’ lumi che lì m’apparinno (cioè dai lumi che apparvero, che erano gli spiriti beati fatti a forma di croce)/ s’accogliea per la croce una melode/ che mi rapiva, sanza intender l’inno».
Ecco il punto. Anche secondo Dante la comprensione razionale del messaggio musicale è impossibile. È invece possibile il rapimento. E può essere rapito dalla musica in maniera più autentica, più intima e più profonda anche chi di musica non sa nulla. Non dobbiamo capire la musica, ma esserne coinvolti, rapiti