la Repubblica, 10 novembre 2024
L’ultima spallata al Muro di Berlino
Sul palco d’onore installato nel cuore di Berlino, durante la sfilata per il mesto compleanno della Ddr, il segretario generale del Pcus si girò verso Honecker e gli disse: «chi arriva tardi, è punito dalla vita». Honecker non capì. I tedeschi sì.
Poco dopo, Honecker fu accompagnato alla porta, ma l’arrivo di Krenz non illuse nessuno. Il delfino del dittatore della Ddr guardava con ammirazione alla Cina che aveva schiacciato nel sangue gli studenti della Tienanmen. E i tedeschi che dai sagrati delle chiese, ogni lunedì, camminavano lentamente attraverso il centro di Lipsia o Berlino o Rostock con le candele in mano, gridando «il popolo siamo noi», temevano i carri armati sovietici come quelli che nel 1953 schiacciarono la rivolta della Ddr, le torture ai prigionieri politici nel carcere di Bautzen, le raffiche di mitra dei Vopos (la polizia del popolo) al primo cenno da Mosca. Quel cenno, per fortuna, non arrivò mai.
Un mese dopo il compleanno della Ddr e il monito di Gorbaciov, i maggiori intellettuali e oppositori trovarono persino il coraggio di salire su un palco allestito all’Alexanderplatz. Inimmaginabile, fino a qualche settimana prima. A cinque giorni dalla caduta del Muro, un milione di tedeschi si azzardarono in piazza, tenendo in alto cartelli dove Egon Krenz aveva denti da lupo e la cuffia della nonna di Cappuccetto rosso. La stanchezza e la rabbia di un popolo intero trovarono sfogo nei discorsi dei suoi intellettuali, nelle parole di Christa Wolf e Heiner Mueller, ma anche in quelle di Ulrich Mühe, all’epoca una stella dei teatri berlinesi. Fu la prima manifestazione libera nella storia della Ddr. All’enorme folla che aveva riempito l’“Alex”, come la chiamano i berlinesi, l’attore ricordò un articolo della Costituzione della Ddr che garantiva il diritto «a esprimere liberamente la propria opinione», una norma calpestata brutalmente e da sempre dal regime dei bonzi. Dopo la caduta del Muro, Mühe scoprì che sua moglie, Jenny Gröllmann, era stata per anni una “collaboratrice informale” della Stasi. Lui divorziò. Ma anni dopo, quando recitò il ruolo da protagonista ne “Le vite degli altri” – ispirato anche alla sua storia – gli chiesero cosa avesse fatto per interpretare al meglio il suo ruolo. «Ho fatto appello alla memoria», rispose.
In piazza, quel giorno, c’era anche il giornalista Harald Schultz, che allora lavorava per l’Associated Press. E ha rievocato con noi uno dei momenti più belli di quel 4 novembre. «La polizia era ai margine della piazza, e come al solito temevamo che sarebbe arrivato qualche ordine terribile, che sarebbero partiti arresti, violenze o peggio. Invece non successe nulla. L’ordine da Mosca non arrivò neanche quella volta. A un certo punto una donna si avvicinò a due Vopos che stavano con le mani incrociate dietro la schiena, a guardare la manifestazione. La donna sorrise e posò un fiore ai loro piedi e disse “Buona giornata”». I poliziotti, per un po’ rimasero immobili. A un certo punto si spostarono lentamente, impercettibilmente verso destra. E i fiori rimasero lì, abbandonati. Ma i Vopos non avevano osato toccarli».
Dopo il 9 novembre: il frutto avvelenato della libertà
Tutto stava crollando, i segnali si moltiplicavano ovunque. E cinque giorni dopo la gigantesca manifestazione all’Alex, una famosa conferenza stampa spinse migliaia di tedeschi a recarsi di notte ai valichi di frontiera, quelli dove dal 1961 si sparava a vista. Il Muro cadde, il resto è storia. E qualche tempo fa, Wolfgang Schaeuble ci raccontò che per lui e per molti altri tedeschi quello è stato il «giorno più felice della storia tedesca».Ma a trentacinque anni di distanza, moltissime cose non sono ancora andate a posto, quella libertà conquistata da milioni di tedeschi dell’Est è diventata, per molti, un’eredità avvelenata. E una leggendaria figura dell’opposizione al regime come Wolfgang Thierse, non se ne capacita.
Il politico ottantenne aderì nell’autunno dell’89 al Neues Forum che sognava una terza via tra socialismo reale e capitalismo ed era membro della Spd – e già questo era un combinato disposto pericoloso, per un cittadino dell’Est. Dopo la caduta del Muro, Thierse non smise mai di lottare per la democrazia e per la libertà conquistata dai tedeschi orientali come lui, neanche quando fu presidente del Bundestag, tra il 1998 e il 2005. Negli anni suscitarono scalpore le sua partecipazioni a presidi e manifestazioni anti-neonazisti: è rimasto un indefesso difensore della democrazia anche dopo la Riunificazione. E oggi Thierse continua a lottare contro l’ascesa dell’Afd, che è particolarmente robusta proprio nei Laender a est dell’Elba che avevano fatto la “rivoluzione pacifica”.
«Considero la rabbia che si è diffusa a Est e l’ascesa dell’Afd ma anche della populista Sahra Wagenknecht una sconfitta personale», si sfoga al telefono. Alle ultime elezioni di settembre in Sassonia, Brandeburgo e Turingia si è rafforzata un’estrema destra che è finita sotto osservazione dai servizi segreti. Ma la tendenza a votare Afd è dalla fondazione del partito molto più alta a Est che a Ovest. Thierse viene dalla Turingia, nei mesi scorsi ha girato parecchio nel suo land, dove ha stravinto un leader dell’Afd, Bjoern Hoecke, condannato in tribunale per aver usato lo slogan delle Ss “Tutto per la Germania”, noto per i suoi “scivoloni” che ammiccano a un pubblico antidemocratico. Famosa la sua sortita di qualche anno fa contro il Monumento alla Shoah di Berlino, definito dall’ex insegnante di storia «una vergogna».
Thierse è rimasto «scioccato», ammette, dalla «rabbia verso le presunte élite, per “quelli là sopra”’» che ha percepito nel suo viaggio in Turingia. Peggio: «c’è un odio sempre più grande contro politici e istituzioni democratiche, c’è una violenza nell’aria che mi atterrisce». Ma l’ex presidente del Parlamento ammette che una parte di quella rabbia ha a che fare con il governo più litigioso della storia, che per quasi quattro anni «non si è mostrato in grado di affrontare una montagna di problemi». E negli ultimi giorni, non a caso, il governo Scholz è naufragato miseramente sotto il peso della sua stessa inerzia. Al più tardi a marzo si torna a votare, e il secondo partito più popolare nei sondaggi, a Est come a Ovest, è l’Afd. Secondo Thierse, nella vecchia Germania orientale, con l’aggravarsi dei problemi economici – la recessione, le crisi di Volkswagen e di Thyssen e del cuore dell’industria manifatturiera, «i tedeschi dell’Est hanno paura di un’altra svolta traumatica come quella del 1989. C’è un clima apocalittico che si sta diffondendo».
La crisi e “l’irriducibilità” dei tedeschi dell’Est
A distanza di 35 anni, il dibattito in Germania sul bilancio della fine della Ddr e della Riunificazione, avvenuta un anno dopo, continua a scaldare gli animi. C’è un’identità “irriducibile” dei tedeschi dell’Est, che si rispecchia anche nelle loro scelte politiche? Su questo sembrano essersi concentrati molti libri e molte riflessioni, soprattutto negli ultimi tempi. Quando cadde il Muro, il padre della Riunificazione, il cancelliere Helmut Kohl, aveva promesso ai tedeschi orientali i famosi «paesaggi in fiore»: lo Stato in bancarotta sarebbe stato restaurato in fretta, le differenze tra Est e Ovest sarebbero sparite presto. Ed è innegabile che dal punto di vista economico «la Riunificazione è stata un grande successo» come osserva l’economista dell’università Humboldt e vicedirettrice della Fondazione Rockwool, Alexandra Spitz Oener.
All’epoca le imprese della Ddr furono assorbite da un conglomerato, la Treuhand, che le liquidò in gran parte. La quota rimanente andò al 90% a proprietari dell’Ovest o a stranieri, ma Spitz-Oener sottolinea che «l’economia dell’Est non era competitiva», e che in particolare con l’arrivo del marco dell’Ovest, fortemente voluto dai cittadini dell’Est, «i prodotti della ex Ddr divennero ancora meno competitivi». D’altra parte, se la valuta non fosse stata unificata, ricorda l’economista, «l’emorragia dei tedeschi orientali verso la Germania federale sarebbe stata inarrestabile».
Ma l’economia non è tutto. E in un pamphlet, “Der Osten ist eine westdeutsche Erfindung” (“L’Est è un’invenzione dei tedeschi dell’Ovest”, Ullstein) che ha fatto molto discutere, il germanista Dirk Oschmann, stanco dei luoghi comuni sui tedeschi dell’Est, accusa i suoi cugini dell’Ovest di aver letteralmente colonizzato l’ex Ddr spazzando via ogni segno identitario. Oschmann ricorda anche bene lo shock degli anni Novanta: la fine della Ddr significò «il 70% di deindustrializzazione, 4 milioni di disoccupati e 2,2 milioni di famiglie colpite dalla legge sulla restituzione degli immobili». E lo studioso rammenta che a distanza di tre decenni, in Germania «la quota di tedeschi dell’Est che ricoprono posizioni di vertice nell’economia, nell’amministrazione, nella giustizia, nei media o nella scienza è, in media, l’1,7%». Una percentuale che lascia a bocca aperta. E che spiega anche la frustrazione di molti tedeschi orientali. Il grande filosofo JuergenHabermas, anni fa, criticò questa assurda esclusione dei tedeschi dell’Est dalle élite: gli è stato impedito «di fare errori propri e di imparare da questi errori», scrisse. E non ci si può meravigliare, forse, che ci sia una strutturale diffidenza verso “quelli là sopra”.
Un famoso studio dell’autorevole Fondazione Bertelsmann di cinque anni fa rivelò che otto tedeschi orientali su dieci si sentono ancora «trattati ingiustamente» e una percentuale analoga pensa che «molte cose che funzionavano bene nella Ddr non sono state salvate». L’autore del testo, il sociologo Kai Unzicker, ci spiega al telefono che «la fine della Germania est è stata una rottura biografica» per milioni di persone, e che «l’arroganza dell’Ovest, quel ripetere all’Est “siate grati”» non ha certo aiutato a rasserenare il clima.
Ma forse uno dei libri più illuminanti sul tema è stato scritto da Steffen Mau: “Ungleich vereint” (“Uniti in modo diseguale”, Suhrkamp). Il sociologo si è convinto che si sia sviluppata un’identità propria dei tedeschi dell’Est. E invita ad essere prudenti, quando li si accusa, tout court, di scarso senso della democrazia perché votano l’Afd. La democratizzazione della Germania federale, ricorda Mau, avvenne nel Secondo dopoguerra in un contesto di boom economico. L’associazione tra le due cose è dunque positiva. Mentre per i tedeschi dell’Est, la liberazione dal comunismo è arrivata di pari passo con un’ondata di disoccupazione, di deindustrializzazione e di declassamento professionale. Quando si fatica a rialzarsi dalle macerie, è più difficile affezionarsi alla democrazia.