la Repubblica, 10 novembre 2024
Case rifugio per salvare gli ebrei
«Ho detto a tutti: venite da me. Qui siete al sicuro». Giovedì sera, al culmine della caccia agli israeliani, Esther Voet ha capito che qualcosa stava andando storto quando su whatsapp sono comparsi messaggi sempre più angoscianti. «Poi ho iniziato a sentire dei botti madornali provenire dalla strada. E un mio amico che abita a Prinzengracht mi ha chiamato, terrorizzato, perché sentiva quelle esplosioni proprio davanti alla sua porta. Gli ho detto scappa da me». Sul gruppo whatsapp della comunità ebraica, Voet ha diffuso lo stesso messaggio. «Molti ebrei vivono a sud, vicino allo stadio. Ho comunicato che da me c’era posto», ci racconta al telefono dopo una notte insonne e un giorno di terrore e di rabbia. Fa impressione sentire la cronaca di quella notte nel suo appartamento. Perché a duecento metri dalla casa di Anna Frank, ad Amsterdam sono tornati i nascondigli per gli ebrei.
Giovedì una decina di israeliani hanno trovato rifugio da lei, si sono avvicendati sul divano e nel letto. «Io, ovviamente, non ho chiuso occhio». Ma secondo altre testimonianze raccolte da Repubblica, sono centinaia gli israeliani «che non si sono fidati degli alberghi, zeppi di concierge e dipendenti che segnalavano la presenza “degli ebrei” alle bande filopalestinesi», come ci confida Annemieke Raatsie. Anche lei ha la ancora la voce che le trema dall’indignazione. Nella notte di giovedì l’intera comunità ebraica ha organizzato i salvataggi dei tifosi israeliani, portandoli «in un rifugio segreto, capiente, dove siamo riusciti a nascondere un centinaio di persone. Ma non è l’unico: tanti hanno messo a disposizione i loro appartamenti». Non vuole assolutamente dire dov’è il rifugio più grande, perché alcuni ospiti non sono ancora riusciti a ripartire per Tel Aviv. E fino ad allora, «il nascondiglio deve restare un nascondiglio».
Anche i trasporti erano organizzati da «persone fidate». La voce che i tassisti e gli uber fossero diventati spie dei teppisti si è diffusa rapidamente. Esther e Annemieke hanno partecipato direttamente a vere e proprie operazioni di salvataggio, hanno organizzato i prelievi degli israeliani braccati alla stazione, al Dam o per i vicoli del centro. Esther dirige il settimanale ebraico Niw, e ha coinvolto nell’operazione il suo vice, Bart Schut: man mano che su whatsapp arrivavano i messaggi delle botte, Schut si precipitava lì con la sua macchina e prelevava tutti quelli che poteva. «Alcuni si sono messi a piangere quando hanno capito che Bart li stava portando in un posto sicuro», racconta Esther.
Annemieke ha coinvolto i suoi due figli, Nathan e Jamie, come autisti: anche loro hanno fatto per tutta la notte su e giù dai luoghi degli scontri. Ma una cosa che l’ha scioccata è l’inerzia della polizia, «del tutto assente nei momenti più drammatici dei pestaggi». Nei mesi scorsi, va ricordato, nei Paesi Bassi è scoppiato anche uno scandalo, rivelato da due agenti, Marcel De Weerd e Michel Theebon. Era emerso il rifiuto di alcuni colleghi di presidiare le sinagoghe e i luoghi sensibili della comunità ebraica. Si nascondevano dietro al conflitto in Medio oriente per rifiutare turni davanti al Museo dell’Olocausto.
Chi ha vissuto sulla propria pelle l’ambivalenza della polizia di Amsterdam è Arie Kegen, che era alla partita Maccabi- Ajax con il suo figlio quattordicenne, altri tre adolescenti e il nonno di uno di loro. Lo abbiamo raggiunto al telefono in Israele, dov’è riuscito a tornare, dopo la notte degli orrori. «Durante la partita è andato tutto liscio e siamo stati protetti dalla polizia. Ma al ritorno verso l’albergo, quando siamo riemersi dalla metro alla stazione centrale, abbiamo notato che non c’era un solo agente». Appena usciti dalla stazione, hanno capito che per le strade c’era l’inferno. «Agli angoli c’erano gruppi di persone che parlavano in arabo e brandivano mazze e coltelli. Abbiamo cominciato a correre verso il Dam, verso l’albergo».
Quando il primo petardo è esploso vicino a suo figlio, Arie ha raccolto alcuni bastoni da terra perché il suo gruppetto si potesse difendere. «Ma otto poliziotti si sono avventati su di noi intimandoci di abbandonarli e di tornare verso il Dam, dove c’erano gli scontri». Lui non capisce, è un ordine insensato. Supplica i poliziotti di caricare sulla camionetta almeno i quattro adolescenti e l’anziano. Li prega a lungo, alla fine accettano. Ma quando sale sulla camionetta, capisce la ragione della loro reticenza. «Sulla parete alle mie spalle c’erano due adesivi. Uno di solidarietà alla Palestina, l’altro “Boycott Israel”». L’incubo non è finito neanche in albergo. «La notte abbiamo visto entrare tre marocchini con un cacciavite che cercavano “gli ebrei”. E nessuno ha fatto niente. Abbiamo trascorso la notte barricati nella nostra stanza. Come prigionieri»