(L’Arena, 10 novembre 2024), 10 novembre 2024
Intervista a Francesco Specchia
(L’Arena, 10 novembre 2024)
Il giornalista veronese (d’adozione) Francesco Specchia è il nuovo portavoce e capoufficio stampa di Carlo Nordio, ministro della Giustizia. Benché sia nato nel 1968, è sempre stato ideologicamente agli antipodi rispetto al sovvertimento scaturito da quell’anno funesto. Per faro ha avuto, fin da bambino, Indro Montanelli, tant’è che nel 2011 battezzò il primogenito con lo stesso nome. Per la verità, il fondatore del Giornale si chiamava Indro Alessandro Raffaello Schizogene. Specchia, in un soprassalto di umiltà, volle dimezzare i nomi del neonato: Gregorio Indro. Approfittò dei fumi dell’anestesia dopo il parto cesareo per far credere alla moglie Alessandra Sabellico «che quello del mio idolo sarebbe stato il secondo nome, invece è parte integrante del primo, infatti Gregorio Indro si firma già così», e nella scelta del verbo si avverte la predestinazione del povero fanciullo. Il fratellino Tancredi farà 10 anni l’antivigilia di Natale.
Specchia, ancora per pochi giorni inviato di Libero, è figlio di Giuseppe, di origini pugliesi, conosciuto come Roberto, generale a riposo dell’Esercito, e di Angela Draicchio, maestra elementare in pensione. La coppia abita a San Martino Buon Albergo, dove arrivò da Firenze quando il piccolo Francesco aveva appena 2 anni, e anche qui si può leggere un segno del destino, visto che nella località aveva sede L’Arena, sulla quale il rampollo si sarebbe esercitato da giovanotto. Subito dopo nacque Stefano, oggi generale dei carabinieri a Perugia, città nella quale insegna educazione fisica l’ultimogenito, Andrea. «Abbiamo l’Accademia militare di Modena nel Dna di famiglia».
Come mai tuo papà arrivò a Verona?
Fu suo padre Francesco a consigliargli di inserirla fra le città preferite in vista di un possibile trasferimento. Venne assegnato alla caserma Duca di Montorio. Anche mio nonno era un generale, aveva esercitato il comando qui e si era innamorato della città. Fu decorato per aver salvato molti soldati italiani, fra cui alcuni veronesi, nell’assedio di Tobruk.
Torni spesso a trovare i tuoi genitori?
Tutti i mesi. Li porto a pranzo alla Mattarana, oppure all’Osteria Al Ponte a Ferrazze o al Duca in centro.
Dove hai studiato?
Liceo classico Maffei, sezione E. Don Aleardo Rodella entrava in classe e si metteva a parlare in aramaico e in greco. Anziché religione, insegnava filosofia meglio di chiunque altro.
In classe chi c’era?
Intendi «figli di»? Chiara, figlia dello psichiatra Vittorino Andreoli; Isabella, figlia del regista Ezio Maria Caserta; Anna, figlia del pittore Silvano Girardello. C’erano anche Stefano Biguzzi e Giulio Brusati, oggi all’Arena. Abbiamo una chat e c’incontriamo a cena tutti gli anni la vigilia di Natale.
Ti sei laureato in legge a Parma e hai una specializzazione in comunicazioni di massa e antropologia criminale. Sei seguace del nostro concittadino Cesare Lombroso?
Ho sempre avuto un debole per le indagini e la letteratura poliziesca. Dopo la laurea, seguii un corso a Palermo con il professor Gaetano Ingrassia, noto criminologo forense. Nel frattempo lavoravo per un giornale fatto dai lettori che si chiamava La Tua Voce ed era finanziato da Pier Ferdinando Casini. Siccome non pagavamo il pizzo alla mafia, gli edicolanti lo nascondevano. Infatti dopo un anno morì.
Come La Voce di Montanelli, durata dal 22 marzo 1994 al 12 aprile 1995.
Mentre ero all’università, collaboravo con la Gazzetta di Parma. Lo storico direttore, Baldassarre Molossi, mi disse: «Mio figlio Giuliano fa un giornale a Milano con un suo amico. Se lei è bravo, la assumono, altrimenti la disilludono subito». Quell’amico era Indro. Mi volle fin dal primo numero come stagista, nella redazione spettacoli con Gianni Canova, poi divenuto famoso per le recensioni dei film su Sky, e Aldo Vitali, ora direttore di Tv Sorrisi e Canzoni. Rimasi sino alla chiusura.
Che cosa hai imparato da Montanelli?
A scrivere per il lettore. E l’onore della sconfitta.
Vale a dire?
Se l’avversario è in difficoltà, devi tendergli la mano, per poi toglierla quando si riprende. Sembra retorica polverosa, invece aiuta ad andare avanti.
Come arrivasti ai giornali?
Dalle medie Giovanni XXIII di San Michele Extra. Ero il caporedattore del giornalino scolastico, diretto dalla prof che lo aveva promosso.
Prima esperienza vera?
Verona Sette. L’editore e direttore Achille Ottaviani mi ricevette nella redazione di via Prato Santo. Divertente, affabile, mi mise subito alla prova. Non ricordo se fu lui o L’Arena a mandarmi a intervistare la sedicenne Hoara Borselli, che aveva vinto il concorso di bellezza Miss Festivalbar. Me la sarei ritrovata come firma a Libero. Ora ha seguito Alessandro Sallusti al Giornale.
E dopo Verona Sette?
Verona Fedele e L’Arena. Poi La Voce e, rimasto disoccupato, L’Eco della Carogna.
Questa me l’ero persa.
Si trattava di un mensile di inchieste satiriche fondato da Angese con Jacopo Fo, figlio del premio Nobel, e Vauro. Ci collaborava anche Marco Travaglio, firmandosi Calandrino, pseudonimo che fu di Montanelli. Infine Stefano Lorenzetto, vicedirettore di Vittorio Feltri, mi chiamò al Giornale.
Non so se voglio scriverlo.
Scrivi che te l’ho chiesto io. Ci tengo, davvero. Senza di te non avrei conosciuto Feltri, che in seguito mi prese al Borghese e poi a Libero fin dal primo numero.
Mi ricordo che eri fra il pubblico a Sona l’8 settembre 1995, quando venne a parlare di Tangentopoli. A tarda notte, a cena con Bice Biagi alla Vecchia Lugana di Sirmione, mi offrì di diventare suo vicario.
Mi ricevette al Borghese. Giancarlo Meloni, un suo vecchio collega dei tempi della Notte che gli ripassava i pezzi, mi prestò la cravatta: Feltri detesta i giornalisti dall’aspetto trasandato. «Sto preparando un giornale corsaro», si lasciò sfuggire. Era Libero. Ma lì per lì non ci pigliammo affatto.
Mi è noto.
Venimmo addirittura alle mani. Ero nel Cdr, gli contestai un’affermazione. Lui mi spintonò e caddi a terra. Adesso siamo come padre e figlio. Mi scrisse un biglietto, che conservo, con tre regole: «Avere una notizia. Scriverla bene. Divertire il lettore». Ma intanto ordinò a Meloni di mettermi a seguire il Grande fratello 24 ore su 24. Un incubo. Al primo pezzo sul reality, imitai Sergio Saviane, mio maestro di critica televisiva alla Voce. A Feltri piacque parecchio. Mi nominò vice degli Spettacoli, poi capo, quindi mi affidò l’attualità, infine mi promosse inviato.
Ha fatto la tua fortuna.
Ci ricavai un libro. A fine mese ne esce un altro, Complimenti per la trasmissione. Un impavido telebestiario, edito da Baldini+Castoldi.
Perché il ministro Nordio ha scelto te come portavoce?
Era senza, visto che la brava Raffaella Calandra, in aspettativa dal Sole 24 Ore, ha deciso di ritornare al suo giornale.
Intendevo: perché proprio te?
Cercava una figura a 360 gradi e io a Parma sono stato assistente di procedura civile.
Lo conoscevi?
L’ho intervistato un paio di volte. Ho letto i suoi libri di storia e di diritto, incluso Crainquebille, traduzione dell’opera di Anatole France che narra la disavventura di un verduraio ambulante stritolato dalla macchina infernale della giustizia. Condividiamo la passione per Winston Churchill.
Quando prendi servizio?
A fine mese. Mi trasferirò a Roma da solo, la famiglia resta a Milano. A Libero ho chiesto l’aspettativa, come feci nel 2018, quando creai Pop Economy, emittente tv che spiega il mondo dei soldi alla generazione millennial. Ora è stata venduta agli americani. Sono anche tra i fondatori di Agorà su Rai 3.
Stavolta potresti restare senza lavoro nel giro di 24 ore.
Non credo che questo governo finisca in un giorno né in due anni. Secondo me durerà a lungo. Nordio ha le idee chiare sulla riforma della giustizia, che è diventata la priorità dell’esecutivo. Poi, per carità, il destino disegna arabeschi inconoscibili. Ma Giorgia Meloni mi pare saldamente in sella.
La conosci?
Sì. Mi offrì la direzione del Secolo d’Italia. Voleva un liberale per aprire il giornale alla destra moderata. Sai, più di metà degli elettori di Fratelli d’Italia non vota il partito, bensì Meloni, e proviene sia dal centrodestra sia dal centrosinistra.
Hanno scritto che il Guardasigilli ti corteggiava da tempo.
Mi ha cercato due mesi fa.
Hanno anche scritto che inizialmente sembrava dovessi finire al dicastero dell’Agricoltura di Francesco Lollobrigida o a quello della Cultura di Alessandro Giuli.
La prima non è vera. La seconda è verosimile. Giuli mi ha chiamato per dissuadermi dopo che avevo rifiutato la nomina nella Commissione cinema del Mic, offertami dal suo predecessore Gennaro Sangiuliano. Ma ho declinato per mancanza di tempo e anche perché l’incarico era poco remunerato: 15.000 euro l’anno.
Hanno anche scritto che il tuo direttore, Mario Sechi, era stufo di vederti più nei talk show che in redazione.
Sono in tv 5 volte a settimana, per un totale di 5-6 ore, mediamente, fra Piazzapulita, Otto e mezzo, Tagadà, Linea notte, Agorà, Sky Tg24. Ma il mio programma preferito è Tv talk su Radio 3. Quelli di Fratelli d’Italia mi rimproverano perché vado nei salotti di Corrado Formigli e Lilli Gruber.
Ora dovrai darci un taglio, il tuo ego ne soffrirà.
Ho sbagliato a sovraespormi. Mi attende un lavacro penitenziale per i danni combinati.
Perché in tv vogliono te?
È così da 20 anni, da quando ereditai la conduzione di Iceberg su Telelombardia, che dopo la morte di Daniele Vimercati era passata a Gianni Rivera con risultati disastrosi.
Non mi hai risposto.
Forse perché ho varie giacche, come diceva Maurizio Costanzo. Sono di destra, ma atipico. E poi perché studio, mi preparo, essendo afflitto dalla stessa paura che ha Giorgia Meloni.
Quale sarebbe?
La figura di palta in diretta.
A Piazzapulita con Maria Rosaria Boccia, la «pompeiana esperta», copyright Paolo Mieli, sei stato accusato da Luca Telese di ragionare «come un giornalista di potere».
Telese si è lasciato trascinare dal vento del logos, commenterebbero gli antichi. La verità è che ha perso la brocca per Boccia, crede che gli porti ascolti. Pia illusione.
Ogni tanto anche tu dai su come il citrato. Con David Parenzo a L’aria che tira sei sbottato: «Perdonatemi, devo parlare io o no? Sennò vado a farmi un caffè e poi torno».
Parenzo era mio inviato a Iceberg. Ha un brutto difetto: invita gli ospiti e poi si dimentica che sono in collegamento.
Hai concesso una replica con Piercamillo Davigo a In onda.
Ne vado fiero. Lui è l’ex pm della famosa sentenza: «Non esistono innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti». Siccome si permise di moraleggiare sui politici, gli feci notare che, stando ai suoi criteri, non avrebbe dovuto parlare, visto che è stato condannato dal tribunale di Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio. Il rilievo mossogli dai giudici – «smarrimento di una postura istituzionale» – è quanto di più grave possa essere addebitato a un magistrato e avrebbe dovuto indurlo a sparire dalla circolazione.
Dichiarasti che contro Hamas avresti «usato l’atomica».
All’indomani dei massacri del 7 ottobre. Ricevetti minacce di morte via social. Lo ridirei.
Qualcuno non ti sopporta?
Tutti quelli della sinistra e metà di quelli della destra. Renato Brunetta mi odia.
Travaglio ha ribattezzato Carletto Mezzolitro il tuo nuovo datore di lavoro.
Marco è mio amico, ma sulla giustizia la pensiamo all’opposto. Lui applica il metodo satirico di Calandrino: ridicolizza l’avversario per l’aspetto fisico o per le presunte abitudini. Nordio è veneto? Diamogli dell’ubriacone. A me ha riservato in prima pagina sul Fatto Quotidiano una vignetta di Mannelli che gridava vendetta al cielo. Al telefono si è scusato: «Sai che non censuro nessuno». Ora mi aspetto il bis.
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