10 novembre 2024
Biografia di Margherita Sarfatti, l’omonima: la nipote di Margherita Sarfatti che ha fatto campagna per Trump
Fa una certa impressione arrivare alla periferia di Philadelphia, imboccare una stradina di villette a due piani, suonare, e trovarsi di fronte Margherita Sarfatti. L’omonima. Margherita Sarfatti, la donna che inventò Mussolini, era sua nonna. La mamma di suo papà.
Lei indossa una maglietta della campagna di Kamala Harris.
Signora Margherita, lei è di sinistra?
«In famiglia mi chiamano Magalì. Sì, sono di sinistra fin da quando ero ragazza».
E sua nonna cosa le diceva?
«“Magalì, ti raccomando solo una cosa: non mi diventare comunista. Non fare lo sbaglio che ho fatto io. Ha ragione Churchill: la democrazia parlamentare è il peggior sistema, tranne tutti gli altri. Non abbiamo altro che la democrazia. Perché non basta voler aiutare la gente. Bisogna anche starla a sentire”».
Sua nonna è stata fascista. Ha insegnato a Mussolini molte cose, l’ha reso noto nel mondo con il libro Dux.
«Ma ha anche scritto un libro intitolato “My fault”. E il suo errore era stato appunto Mussolini. Mussolini era il suo grande rimorso».
Cosa diceva del Duce?
«Era un argomento tabù. Non ne parlavamo mai. Una volta mi disse: “In tutta la mia vita ho amato solo due uomini; entrambi erano uomini eccezionali”. Uno era il Duce. L’altro era suo marito: Cesare Sarfatti, avvocato. Aveva difeso pure Mussolini, sa?».
Quando?
«Dopo i fatti di Verbicaro, in Calabria. Era il 1911, scoppiò il colera ma si ammalavano solo i poveri, ci fu una rivolta popolare contro i notabili, tre furono linciati. Mussolini si schierò con gli insorti, fu accusato di apologia di reato, e Sarfatti lo difese».
Con Cesare Sarfatti sua nonna ebbe tre figli: suo padre Amedeo, sua zia Fiammetta e il primogenito, Roberto, caduto nella Grande Guerra. La via della Bocconi a Milano porta il suo nome.
«Andò in guerra a diciassette anni, falsificando i documenti, con lo spirito irrequieto e ribelle di chi oggi va a schiantarsi in macchina il sabato sera. Per la nonna fu un dolore che si portò dentro per tutta la vita».
Margherita Sarfatti scrisse a Mussolini molte lettere.
«Sì, ma lui bruciò gli originali: il Duce del fascismo non poteva custodire le lettere dell’ebrea. Ci sono ancora invece le lettere che Mussolini scrisse alla nonna. Ho potuto leggerne qualcuna, ma non le ho trovate di grande interesse. Lui le esprime molta riconoscenza, scrive: “Sei l’unica che è sempre stata dalla mia parte”. Anche nell’orribile delitto Matteotti».
Che cosa disse sua nonna a Mussolini a proposito del delitto Matteotti?
«Gli consigliò di non indietreggiare, anzi, di assumersi tutta la responsabilità politica dell’accaduto. Lui lo fece. E approfittò di quell’assassinio per instaurare una dittatura».
La Sarfatti l’aveva incoraggiato anche a marciare su Roma.
«La notte prima lui la passò al Soldo, nella villa di famiglia non lontana dal confine svizzero. Però anni dopo la nonna fece di tutto per impedire l’alleanza con Hitler».
Riferì al Duce un messaggio di Roosevelt: l’America non è nemica dell’Italia, purché non si schieri con i nazisti.
«La nonna scriveva benissimo l’inglese, era corrispondente dall’Europa per i giornali del gruppo Hearst, Time e Life. Anche per questo Roosevelt la ricevette alla Casa Bianca. Tornata a Roma, andò da Mussolini e gli riferì il messaggio del presidente. E lui rispose: “L’America non conta”. Non aveva capito nulla».
Lei è nata a Roma nel 1936. Due anni dopo, il Duce impose le leggi razziali.
«La prima a fuggire fu la nonna. Aveva capito come sarebbe finita. Il regime tentò di farla tornare, perché sapeva troppo, ma lei se ne guardò bene: l’avrebbero eliminata. Così rimase lontano, in esilio; e rimase in silenzio. Sua sorella maggiore, Nella, fu uccisa ad Auschwitz. Lei avrebbe voluto riparare negli Stati Uniti, ma il governo democratico non voleva i fascisti; così andò in Argentina, che pur simpatizzando per l’Asse evitò di entrare in guerra, e di perseguitare gli ebrei».
E la sua famiglia?
«Mia mamma, Pierangela Daclon, era cattolica e mio padre Amedeo si era convertito. Era direttore di banca, alla Commerciale. Un giorno andò in ufficio e trovò le camicie nere che gli dissero: lei non lavora più qui. Lui rispose: ma io sono il direttore! E quelli: no, tu sei un ebreo. Lo aiutò Raffaele Mattioli, che della Commerciale era il grande capo. Così espatriammo in Sud America. All’inizio pensavamo al Cile; poi sapemmo di un brutto terremoto, e andammo in Uruguay, a Montevideo. La nonna veniva spesso a trovarci».
Come la ricorda?
«Un po’ buffa, in costume da bagno, con la pancia, sulla spiaggia dell’hotel Carrasco. Era fissata con la ginnastica. Nuotava moltissimo, anche al largo: era la disperazione dei bagnini, che rimproveravano papà: “Su madre esta loca!”, sua madre è pazza, poi noi dobbiamo andare a salvarla. Ma lei non aveva bisogno di essere salvata. Teneva moltissimo alla sua persona. Era sempre molto truccata, quasi dipinta».
Era affettuosa?
«Tanto. Papà diceva di lei che era nel contempo imperiosa e lassista. Al giardino d’infanzia avevo preparato un regalino, un vasetto con un fiore di carta che cadde e si ruppe. Io ero disperata e lei si prese cura di me, “è il pensiero che conta” diceva. Una volta però le chiesi in dono un anellino e lei mi rispose di no. Perché chiesi? Perché è mio».
Mangiavate insieme?
«Era sempre a dieta, si divertiva a dare il cibo agli uccellini, ma non resisteva al carrello dei dolci. Dopo la guerra tornammo in Italia. Alla fine dell’estate andavamo a trovarla al Soldo. C’erano i giornalisti appostati fuori per carpirle rivelazioni sul Duce, e noi con la malvagità dei bambini ci divertivamo a depistarli, a portarli in giro nella campagna… Nonna diceva che non avrebbe pranzato, poi si sdegnava quando non le portavano la pastasciutta come a me e a mio fratello più piccolo, e dovevamo dividerla con lei».
Era un po’ capricciosa?
«Aveva tratti infantili, da bambina. Accendeva e spegneva la luce elettrica in salotto o in camera sua, e diceva: questo per me è ancora un miracolo!».
Dell’amore parlavate?
«Una volta le raccontai di un ragazzo che voleva venire a letto con me, e lei disse: “Non lo devi fare. Gli uomini si tirano su i pantaloni, ed è finita”. Ricordo un giudizio che trovai un po’ fuori posto, per una donna che come lei aveva avuto una vita assai libera. In una conversazione con degli amici, a Parigi, parlando di Madame Curie, disse: “Elle couchait avec tout le monde, n’est-ce-pas?”».
Andava a letto con tutti, vero?.
«Questo non mi piacque allora, né mi piace adesso. Avevo letto la biografia scritta dalla figlia Eve, e ammiravo moltissimo Marie Curie. Ma ero una ragazzina, e non potevo contraddire la nonna davanti agli altri».
Dove vivevate a Parigi?
«In periferia, a Saint-Germain-en-Laye, dove facevo il liceo. A Natale andavamo a trovare la nonna a Roma, e lei veniva da noi a maggio. Una domenica la stavo riaccompagnando al treno di banlieue, attraverso il grande prato davanti a casa. La gente ci faceva il picnic, e lasciava carte e immondizie. Mi sono lagnata, e la nonna ha detto: “Dovresti vergognarti. Sei molto snob. Loro si divertono, sono contenti, e si vede che tu no. Dovresti essere felice di vedere che stanno passando una bella domenica”. Era rimasta un po’ socialista, in modo romantico, come da ragazza».
Sua nonna è stata anche la più importante critica d’arte del secolo scorso.
«Alle mostre parlava con i quadri: Modigliani, Sironi, e Umberto Boccioni, con cui forse ebbe una storia d’amore. Ricordo una mostra di Gino Severini. Davanti a un’opera che le pareva infelice mormorava: “Gino, ma quanto è brutta, ti è venuta proprio male”. Poi però arrivò Gina, la figlia, e lei cambiò rapidamente versione: “Ah, tuo padre, che capolavori…”. Nel 1961 presi la tubercolosi, e finii in sanatorio. La nonna mi scrisse che sarebbe venuta a trovarmi. Ma il 30 ottobre è morta».
Fu la Sarfatti a trasmettere al Duce la passione per la classicità. A Roma come la ricorda?
«Un giorno, all’inizio degli anni 50, mi portò a visitare le terme di Caracalla. Era già anziana, camminava male, e non si trovavano i taxi. Così disse: “Che problema c’è? Prendiamo il tram”. Scese per andare all’opera, e mi lasciò lì: dovevo imparare a cavarmela da sola».
Lei qui in America ha vissuto una vita lunga. Ha un marito di origine svedese, Charlie Larson, un figlio, Toni. E ha fatto la campagna per Kamala Harris. Una sconfitta storica.
«Kamala ha perso non solo perché donna. Noi democratici in Pennsylvania abbiamo fatto una campagna vecchia, porta a porta. I repubblicani hanno puntato sui social».
Anche lei ha fatto il porta a porta?
«Certo, sono andata nei quartieri poveri. Ma non serve. O sono già convinti, o non ti votano comunque. L’unica cosa che sta loro a cuore è il prezzo della benzina. I latinos maschi sono tutti con Trump. A un portoricano ho dato un volantino per Kamala, e me l’ha strappato in faccia…».
Lei crede in Dio?
«No. Ma la nonna ci credeva».
Si dice che prevedesse il futuro.
«Lo cercava nella Divina Commedia. La apriva a caso: “Vediamo cosa ci dice il nostro Dante…”. Dovevo decidere se andare o no a fare una ricerca a Berkeley, e lei sentenziò: Dante dice che devi andare. In effetti il viaggio in America mi ha cambiato la vita. Una volta incontrammo una bella zingara, che voleva leggerle la mano. Lei rispose: no, sono io che la leggo a te».