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 2024  novembre 10 Domenica calendario

Stiamo lasciando sola l’Ucraina?

Sembrano tutti stanchi, gli ucraini di più. Le apparizioni di Volodymyr Zelensky in giro per il mondo delle democrazie, prima accolte con un calore che si estendeva a tutto un popolo stremato dall’assedio, sono via via diventate rituali e meste. Il suo atteggiamento da indomito difensore dell’onore di una nazione, con la felpa verde militare e la barba rada, ha lasciato il posto allo sguardo sempre più angosciato di un uomo che sembra diventato più piccolo del suo metro e settanta. Dateci altre armi, permetteteci di colpire nelle terre di chi ci sta colpendo, impedite che le truppe nordcoreane vadano al fronte contro di noi, fermate i rifornimenti di droni dell’Iran a chi ci vuole distruggere. Non lasciateci soli. Ma il suo «Slava Ucraini», gloria all’Ucraina, da grido si è fatto sussurro, se non disturbo. Un milione tra morti e feriti, calcolo totale approssimativo del Wall Street Journal, sanzioni e incriminazioni senza frutto a carico di Mosca e del suo zar, massacri passati per un attimo alla Storia come quello di Bucha o di Mariupol e già sepolti nell’archivio degli orrori. Quanto ancora, signori dell’Occidente? Fino a quando durerà questo strazio del principio fondamentale di non aggressione di una nazione colpevole, agli occhi di Mosca, delle sue ricchezze naturali e di essere stata parte dell’Unione Sovietica?Ed è proprio questo che domani potrà capitare alle democrazie europee se oggi non si rendono di che cosa può voler dire il fenomeno migratorio (attenzione: ho scritto può voler dire, non che esso lo sia senz’altro). 
Ce ne danno un’idea alcuni squarci di quanto è successo nel minipogrom di Amsterdam e del clima che si respira in quella città. Da mesi «succede ad esempio che a scuola non si può più studiare la Shoah perché i figli degli immigrati alzano la mano e cominciano a parlare dei palestinesi (…); se cammini per strada con la kippah in testa rischi di essere insultato. Ad agire sono in genere i musulmani. Anche i tassisti che avrebbero aiutato gli aggressori nella capitale per la maggior parte sono appunto immigrati».
«Amsterdam è una città dove il 10 per cento degli abitanti è di origine araba, e dove molti poliziotti hanno implicita facoltà di obiezione di coscienza quando si tratta di intervenire contro i sostenitori proPal».
«Non scrivete il mio cognome (…) Se poi mi cercano su internet? Se trovano la mia casa a Tel Aviv?»,
«Vi ammazzeremo tutti è la frase più ripetuta nelle testimonianze».
«Mi affianca un van nero. Scendono in 7-8. Urlano insulti, ebrei di merda. Buttano per terra me e i miei amici. Mi chiedono il passaporto, lo controllano (…) Non volevano ammazzarci, ne sono sicuro. Volevano umiliarci, vederci terrorizzati. Che forse è quasi peggio».
«Il procuratore René de Beukelaer parlerà poi di evento non spontaneo, discreto eufemismo per dire che l’agguato era premeditato».
I brani in corsivo che avete appena letto sono tratti dai «pezzi» scritti dai tre giornalisti (Marco Imarisio, Monica Ricci Sargentini, Greta Privitera) incaricati dal Corriere di coprire l’evento. (posso aggiungere come lettore: «bravi giornalisti»? Lo so che fare i complimenti al giornale dove si scrive può sembrare assai poco elegante, ma sarà pur concesso o no, per una volta, sottolineare l’importanza di un lavoro come quello dei tre di cui sopra e quindi dei giornali? Chiusa la parentesi); sono brani che raccontano di cose e fatti che per l’appunto danno un’idea precisa di quello che è successo.
E cioè di che cosa? Di una generica esplosione di antisemitismo con tutti gli ovvii riferimenti del caso al nazismo e alla «notte dei cristalli»? Se si legge la raffica di commenti che da ore si è scatenata sui giornali si direbbe che è proprio così. Vale tra mille altri l’esempio di Pina Picierno, deputata europea del Pd con delega al «contrasto all’antisemitismo» la quale non si esime, peraltro, sul Foglio, dal mettere subito le mani avanti enunciando il «caveat» di prammatica del bravo democratico, e cioè che beninteso «le politiche di Netanyahu sono quanto di più distante dalla mia visione politica». 
Ora a me pare però, proprio sulla scorta di quanto abbiamo letto sopra, che ad Amsterdam si è trattato, sì, di una feroce aggressione antisemita, ma non da parte di un gruppo di olandesi bensì ad opera di musulmani. Un’aggressione premeditata e organizzata contro un gruppo di ebrei da parte di musulmani immigrati, sebbene presumibilmente con cittadinanza olandese, coadiuvati da un gruppo di tassisti musulmani anch’essi, e a proposito della quale aggressione è lecito nutrire il sospetto che abbia avuto un ruolo la forte presenza di poliziotti pure loro musulmani per i quali, a quel che pare, vale tuttavia nei Paesi Bassi una sorta di davvero singolarissimo regime di «doppia fedeltà»: hanno il dovere di far rispettare la legge ma ne sono esentati se si tratta di farlo contro i loro correligionari. 
Ma se le cose stanno così è forse da islamofobi osservare che allora quello di Amsterdam non è un caso di antisemitismo come ce ne sono stati ahimè tanti altri, ma che ci troviamo di fronte, invece, a qualcosa che accade in Europa per la prima volta? È da islamofobi osservare che di conseguenza un fatto del genere pone una serie di interrogativi inquietanti sull’efficacia dei meccanismi di integrazione, sulla loro capacità di riuscita nei confronti di qualsiasi tipo di immigrazione? Negli ultimi tempi della sua vita un illustre collaboratore del Corriere, Giovanni Sartori, non si stancò di ripetere e ripetere, con argomenti tutt’altro che futili, che esiste una difficoltà estrema per la cultura e la religione islamica ad integrarsi in società democratiche di tradizione e cultura giudaico-cristiana come sono le nostre. 
È da islamofobi ricordarlo? 
Lo ripeto: non bisogna aver paura di guardare la realtà in faccia. L’opinione pubblica e le classi dirigenti politiche non devono farsi intimidire o paralizzare dalle pur nobili, nobilissime petizioni di principio – tipo nel nostro caso «accogliamoli tutti» o «migrare è un diritto» – se queste si dimostrano smentite dai fatti. Sul binomio immigrazione/integrazione si gioca il futuro di noi tutti: guai a commettere errori.