Avvenire, 9 novembre 2024
Ius soli alla thailandese per mezzo milione di persone
Il governo thailandese ha concesso la cittadinanza a oltre 438mila appartenenti alle minoranze etniche nati nel regno o che in esso vivono da tempo. Il provvedimento che riguarda anche immigrati da tempo presenti nel Paese, era atteso e sicuramente dovuto per una parte della popolazione non-thai e non parificata alle etnie riconosciute sul territorio thailandese, che sono pari al 10 per cento dei 68 milioni di abitanti. Nazionalismo, diversità culturale e opportunità politiche ne hanno segnato la sorte in un contesto di leggi piegate alle necessità di controllo delle élite e dei militari. Lo ius soli da tempo richiede la residenza legaledeigenitoriperalmenounquinquennio prima che ai figli possa venire accordata la cittadinanza, ma nei fatti la situazione si è fatta più complessa e variegata. L’attenzione internazionale e un ritrovato clima di democrazia rappresentativa dai molti limiti hanno propiziato il provvedimento annunciato pochi giorni fa dalla premier Paetongtarn Shinawatra che si propone espressamente di affrontare la questione spinosa della cittadinanza. Tuttavia le sue ragioni, più che umanitarie, sono nascoste nella necessità di manodopera. In un Paese che invecchia velocemente, non sembrano più sufficienti i cinque milioni di immigrati, perlopiù birmani. I nuovi cittadini, per i quali saranno finalmente rimossi gli ostacoli burocratici al libero movimento, alla ricerca di una occupazione e all’accesso a servizi essenziali, potranno dare un contributo rilevante, così sostiene il governo, all’economia del Paese.
Gli aventi diritto potranno regolarizzarsi con procedure semplificate, in parte con autocertificazioni e soprattutto a livello locale, non nella lontana capitale Bangkok. Il problema, però, sebbene ridimensionato per individui che sono presenti sul suolo thailandese dal 1984, resterà per altri 350mila circa esclusi al momento dal pieno riconoscimento perché di più recente presenza accertata, fra il 2005 e il 2011. Per essi, nati sul suolo thailandese o immigrati irregolari registrati e in attesa di vedere evasa la richiesta di residenza e cittadinanza, le procedure di integrazione potrebbero impiegare – ammettono le autorità – anche 40 anni se non si interverrà con ulteriori provvedimenti. A incoraggiare un maggiore sforzo per portare alla luce la situazione di irregolarità e risolverla è stato anche l’Unicef, che ha apertamene ringraziato il governo in carica per una decisione definita «storica». Soprattutto per quanto riguarda i 142mila bambini nati in Thailandia che potranno vedere garantiti diritti e possibilità finora disconosciuti. Dei 592.340 individui registrati fino a giugno scorso dal ministero dell’Interno come “privi di cittadinanza”, 169.241 sono minori ai quali ora, all’83 per cento, verrà garantita una prospettiva diversa da quella dei campi di raccolta o della residenza in villaggi sparsi in aree spesso marginali in condizione di povertà e arretratezza. La Thailandia, Paese che non ha firmato la Convenzione per i rifugiati del 1951, ha tuttavia garantito durante il Global Refugee Forum dello scorso anno a Ginevra di volere trovare una soluzione all’apolidia di una parte della popolazione. Un impegno ribadito dalla sua presenza fra i co-fondatori dell’Alleanza globale permettere fine alla mancanza di cittadinanza lanciata il 15 ottobre scorso dall’Alto Commissariato Onu che ha riportato in primo piano la problematica presente nel “Paese del sorriso” e rivalutato il ruolo nel futuro di gruppi fino ad oggi tenuti ai margini e nell’insicurezza.