La Stampa, 9 novembre 2024
Parla Carlo D’Amario, storico Ceo di Vivienne Westwood
«Parigi! È fiacca. Per la moda c’è più energia a Tangeri» A lanciare la provocazione è Carlo D’Amario (ospite d’onore alla Tanger Fashion Week, ndr.), classe 1945, da mezzo secolo Ceo di Vivienne Westwood (non si offenderà se lo chiamiamo grande vecchio, oltre che genio), brand fondato dalla vulcanica stilista inglese scomparsa nel 2022 lasciando la guida creativa al marito Andreas Kronthaler. Con D’Amario, Westwood, che potrebbe nei prossimi anni quotarsi a Hong Kong, ha consolidato la presenza internazionale. Ha uffici e boutique a Londra, Milano, Parigi, New York e Los Angeles, interessi commerciali in Cina, Giappone, Thailandia e Corea del Sud. Chiude il 2023 con un probabile fatturato di 205 milioni di euro (erano 117,82 nel 2022), un record, in tempi di segni meno.
Come è cominciata questa storia?
«Ho conosciuto una Vivienne giovanissima durante la settimana della moda a Parigi. Mi invitò a Londra. Il suo atelier era la casa di una punk convinta, ma ci mettemmo in società: 50-50. Lei era l’anima creativa, io il manager. Per il logo prendemmo a modello il globo d’oro simbolo della regina, ma per dare un tocco disneyano ci aggiungemmo gli anelli di Saturno. I colori dovevano richiamare il mondo british: rosso e giallo con il lettering della Royal mail. Una grande avventura, e sapete come è andata».
Lei dice che un certo mondo fashion è finito.
«Siamo di fronte a un cambiamento epocale, come quando finì il cinema dei telefoni bianchi e arrivò il neorealismo. È già successo. Firenze era la capitale finanziaria del mondo, oggi è la capitale della “tagliata”. Parigi, Londra e Milano erano le capitali della moda, e dovevi esserci. Oggi il fashion show è ovunque. Sul telefono, in tv, a casa tua. Tutto questo ha democratizzato il sistema, arrivano designer palestinesi, c’è una scuola di moda a Nazareth. I direttori commerciali sono diventati coordinatori, oggi vendi online, metti le foto su Instagram, vai su Tik Tok».
È solo una questione di tecnologia?
«No. ll prêt-à-porter, nato 60 anni fa, da allora produce almeno tre collezioni all’anno. È come se oggi avessimo visto moda disegnata per 180 anni. Non che sia un male. Ma oggi i consumatori più interessati e interessanti hanno 18-28 anni, e dopo i 30 hanno gli armadi pieni, mutui da pagare e figli da far studiare. Perciò spesso sostituiscono gli acquisti di lusso con un’esperienza. Alcuni brand vendono una t-shirt a 900 dollari (o euro), soldi che i giovani guadagnano in un mese, se va bene in due settimane. Così gli rubi il tempo vita necessario per potersela permettere. Non va bene. E allora si rivolgono, giustamente, al second hand, al vintage. La mia giacca blu è di 15 anni fa… Tutti vogliono fare il lusso e venderne tanto, ma è un’idea in contraddizione con il prezzo».
Qual è il cambiamento più grande?
«È finito il primato degli stilisti-star. Facevano un viaggio, vedevano il kajal in Marocco, certi tessuti, certi colori e dicevano: “Quest’anno le donne le vesto così.” Non è più tempo. Giorgio Armani, grande, è l’ultimo di una specie perché viene da una formazione diversa, è quello che controlla ancora personalmente se funziona la macchina del caffè e se le luci sono spente. Oggi c’è bisogno del team job, del lavoro creativo di gruppo, tra figure di merchandising, marketing, comunicazione, commerciale. Non dico queste cose con arroganza: se un’azienda va male, e ce ne sono, non provo piacere. Dobbiamo pensare in maniera diversa. Non facciamo l’Isotta Fraschini, non più. A parte l’iperlusso, una nicchia (e anche lì i consumi sono in flessione perché ci sono priorità diverse), la gente ha smesso di comprare quello che non gli serve».
In sintesi?
«L’ha detto Elio Fiorucci molti anni fa:” La moda è troppo importante per essere messa in mano agli stilisti”.»
Non c’è troppa moda in saldo? E gli outlet, fanno bene o male?
«Eh, oggi ci sono più prodotti che clienti. Gli outlet sono una valvola di sfogo, un discorso americano, ma certo, sono strapieni come gli armadi. Ha iniziato Ralph Lauren, e allora era chic, adesso è una disperazione».