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 2024  novembre 09 Sabato calendario

Fabio Fabio e la passione per libri e cioccolato

Incontro Fabio Fazio in un luogo magico, la Libreria Pontremoli di Milano, paradiso per appassionati e collezionisti. Lui è come un bambino in un negozio di cioccolata. E di libri e cioccolata parliamo (e anche di Savona, Albissola, Liguria e di olio). Questa curiosa unione è tenuta insieme dalla passione. Scordatevi del personaggio televisivo. Qui parleremo dei luoghi del cuore e dell’immaginario, dell’amore per i libri, della follia del collezionismo e di incontri speciali. Ogni pezzetto di questa storia ha dentro un’altra piccola storia, e tutto alla fine sta insieme grazie a un oggetto immortale: il libro. Per non perdere il filo di questo racconto bisogna fare un passo indietro a tre anni fa, quando Fazio e un suo amico, un piccolo imprenditore, tornano a mani vuote da un giro in cerca di funghi a Varazze ma convinti di rilevare una fabbrica di cioccolato, la Lavoratti.
Com’è andata?
«Varazze è a sei chilometri da Savona, è il paese dove è nato mio padre, il paese dei miei nonni. Ci passavo le vacanze, ho immagini e memorie bellissime legate a quel posto e a quegli anni. L’uovo di Pasqua arrivava esclusivamente dalla Lavoratti, un cognome toscano di giostrai che da Pistoia si trasferirono in Liguria e nel 1938 aprirono questa fabbrica di cioccolato, una realtà molto locale».
Sembra un racconto di Collodi.
«Stavamo tornando da una battuta di funghi dove non avevamo trovato niente quando siamo finiti davanti alla Lavoratti e il mio amico Davide Petrini mi ha detto: lo sai che chiude? Nooo, avevo un ricordo così bello, quel profumo di cioccolato, ricordo di aver pensato. E istintivamente gli ho detto: perché non la prendiamo? Era estate, non avevamo molto da fare e siamo andati a chiedere. Alla fine l’abbiamo comprata, senza sapere niente di cioccolato. Da tre anni, piano piano, la stiamo rimettendo in piedi. Faticoso, ma il cioccolato è buonissimo».
Che c’entra con la sua passione per i libri?
«È quella che ci ha dato l’idea di definirci editori del cioccolato. I prodotti li chiamiamo libri, alcuni li inseriamo in scatole a forma di cofanetti. Rispecchiano la mia ossessione per l’estetica del libro: la forma rispetta la sezione aurea, i colori della carta sono quelli di Adelphi, le cornicette sulla copertina sono quelle di Gallimard. Altri prodotti si chiamano Matite, quest’anno presenteremo i Fogli, tre millimetri di cioccolato ripieni di frutta. Il foglio di albicocca, di fragola e altri sapori. Essendoci autodefiniti editori del cioccolato ci è poi venuta la voglia di editare anche qualcosa di carta».
Ci racconti.
«Appoggiandoci alla Libreria Pontremoli, stampiamo dei libretti ispirati a quelli creati nel 1960 da Arrigo Bugiani, un geniale operaio editore toscano. Li faceva per conservare traccia della rivista Mal’Aria che aveva fondato, diretto e poi chiuso nel 1955. Erano fogli in formato A4, in carta recuperata da lui in cartiere, tipografie e ovunque riusciva a trovare carta di risulta o di scarto. Erano piegati in quattro in modo da avere otto pagine. Su questi piccoli volumetti, stampava sempre una poesia, un testo, un’incisione. Tutte cose donate da un gruppo di artisti, poeti e scrittori che hanno supportato per trent’anni questa meravigliosa avventura editoriale. Bugiani poi li confezionava e li spediva personalmente. Ci scrivevano Boccioni, De Pisis, Morandi, Modigliani, Sbarbaro, Caproni, Luzi. Cose riprese o inediti. E poi ci ispiriamo all’Olio Sasso».
Cioè?
«Nella scatola con cui spedivano le lattine dell’olio mettevano una pubblicazione che prima era pubblicitaria, poi diventò una rivista letteraria clamorosa, sotto la direzione del poeta Mario Novaro che aveva sposato la figlia dei proprietari dell’azienda. Si chiamava La Riviera Ligure, è stata pubblicata dal 1895 al 1919, ci collaboravano tutti gli artisti più importanti dell’epoca. Su questa rivista accadevano cose meravigliose, pubblicavano autori giovani come Piero Jahier, Camillo Sbarbaro, Giovanni Boine, ma anche Pirandello, Gozzano, Montale, Campana, Pascoli, Rebora. La distribuivano gratuitamente a clienti della Sasso e pagavano bene gli autori. Capisce che Italia era? Ispirandoci indegnamente a questa idea che un’azienda pubblichi qualcosa, noi facciamo i Libretti».
Li distribuite con il cioccolato?
«No. Ne stampiamo solo 80 copie numerate e altre dieci in numeri romani. E si possono comprare sul sito della Lavoratti. Come i Libretti di Mal’aria sono testi che stanno su otto pagine. Il primo è stato Reticolati del cielo, dedicato alla cucina futurista. L’ultimo che presentiamo in questi giorni è Ragionamenti del mio viaggio intorno al Mondo di Francesco Carletti e parla della scoperta del cioccolato, lo porteremo a Bookcity».
Lettore fin da bambino?
«No, non ero un grande lettore. Anche perché ho studiato normalmente. I miei genitori erano impiegati, ho fatto il liceo, poi ho iniziato a lavorare in Rai. Mi sono laureato dopo e non ho niente dell’intellettuale».
Collezionare libri è unire un’idea a una cosa fisica.
«Sì, si imparano molte cose. Si studia molto quando collezioni. Perché ti interessa la storia di quel particolare libro. La sintesi della vita e delle opere di un autore è il libro come oggetto fisico».
Come nasce questa passione?
«A dire la verità non lo so. Ci penso spesso. Colleziono libri che non riuscirò mai a leggere. E mi fa rabbia. Uno dei miei libri preferiti è Bouvard e Pécuchet di Flaubert, per quell’idea folle, un po’ stupida e anche ignorante, di mettere ordine nella conoscenza, di poter completare un’esistenza».
Dice Julian Barnes, grande sconosciuto a Flaubert (e autore di Il pappagallo di Flaubert): «Bouvard e Pécuchet è un libro che parla proprio dell’eccesso di erudizione, o del dilettantismo ossessivo, o dell’erudizione inutile o dell’erudizione maldestra».
«La mia è solo passione. Ho iniziato una collezione di libri su Parigi, pensando di poterla completare. Poi mi sono reso conto che era impossibile e li ho dati via. Ora mi dedico alle prime edizioni del Novecento. Una piccola collezione. Nel disordine che è la condizione umana forse i libri sono una protezione. Il libro di per sé è un oggetto ordinato, perché ha una forma geometrica ed è finito».
In questo gioco, quali sono i libri per lei fondamentali del Novecento?
«Per quel che mi riguarda sono quattro. Il Bizzeff di Ardengo Soffici, il Libro bullonato di Depero futurista e le due Lito-Latte di Marinetti e Tullio Mazzotti, che Marinetti rinomina Tullio d’Albissola».
Tutti libri di poesia futurista.
«Sono oggetti meravigliosi, veramente pop. Le lito-latte si chiamano così perché sono libri di latta e per me c’è un attaccamento affettivo, si torna ancora a Savona e ad Albissola. A Savona c’era un signore, tal Vincenzo Nosenzo, capitano di lungo corso. Quando smise di navigare, tornò a Savona e aprì una fabbrica che faceva scatole di latta per i biscotti. Era una fabbrica molto innovativa: totalmente al femminile. Assumeva operaie riconoscendo diritti che allora nessuno riconosceva: assistenza alle donne incinte e cura della famiglia delle dipendenti. Quando Marinetti disse basta alla carta passatista e cercò materiale futurista, che resistesse al tempo, pensava alla latta e andò da Nosenzo a Savona dove provarono a fare questi libri di latta magnifici».
E poi?
«Anche Resine di Camillo Sbarbaro, che – per inciso – frequentò il liceo classico di Savona che ho frequentato anche io, prima inconsapevolmente e poi orgogliosamente. Resine era la sua prima raccolta di poesie e per pubblicarla fece una colletta tra i compagni di classe. Dietro a ognuno di questi libri c’è una storia meravigliosa».
Queste storie meravigliose nascevano in provincia. Oggi anche la provincia sembra sfilacciata.
«Non si è sfilacciata la provincia, si è sfilacciato il mondo. Se l’unico valore riconosciuto oggi è il denaro, tutto questo non conta niente. Nessuno faceva un oggetto d’arte perché pensava al valore economico, ma perché sentiva l’esigenza di farlo. Adesso è tutto cambiato, tutto deve essere convenienza. Quello che è conveniente quasi mai è giusto, le due cose non coincidono».
Come si vive in una casa così piena di libri?
«Dici sempre basta, ma poi non sei in grado di fermarti. Ero partito con l’idea di cento libri fondamentali, poi sono diventati mille e poi non so più. Ricordo un episodio a casa di Luigi Surdich, era stato mio professore di Lettere e poi è diventato mio fraterno amico, morto purtroppo questa estate. Ricordo la sua casa piena di librerie. Una volta andai a trovarlo mentre scrivevo la tesi. Mi citò un libro imperdibile che per me all’epoca era insignificante e lo trovò in un lampo, a colpo sicuro. Mi piacerebbe avere la sua stessa memoria visiva, perché non riesco mai a ricordare un nome giusto, dico “coso” e “cosa”. Quel libro stava lì per un motivo e lui ce l’aveva nella testa».
Umberto Eco raccontò che si divertiva a stupire gli ospiti che di fronte alla sua libreria gli chiedevano: ma li hai letti tutti? E lui, serio: certo.
«Umberto Eco mi ha regalato alcuni suoi libri comprati sulle bancarelle e usati per fare ricerche per i suoi libri. Ho un bel ricordo delle chiacchierate con lui».
Calasso ha scritto un bellissimo libro sull’ordine dei libri. Una libreria in fondo definisce chi sei. È una carta d’identità. Questo la spaventa?
«Le racconto questa. Calasso aveva un’insana simpatia per me. Anche a me stava molto simpatico e ho avuto la fortuna di frequentarlo. E quando andavo nel suo ufficio in via San Giovanni sul Muro, dietro la scrivania notavo sempre un armadietto su cui arrivava una luce bellissima, quasi impressionista, che entrava dalla finestra e filtrava dalle fronde di un albero. In questo armadietto c’erano dei libri che, si capiva, avevano una storia. E non è difficile immaginarlo, visto che leggeva in francese, inglese, tedesco e russo e credo che ci fossero prime edizioni pazzesche di cose che poi Adelphi ha pubblicato. Tutti i volumi erano coperti da carta pergamino ed era impossibile capire i titoli e gli autori. Un giorno mi ha spiegato: “In questo modo, nessuno può sapere chi sei, perché non saprà mai che libri hai e non ti potrà giudicare».
I libri che la attirano di più?
«Quelli che non ho». —