Avvenire, 8 novembre 2024
Il centro migranti per gli albanesi è un carcere
«Il centro per migranti? Nei mesi estivi il lavoro è stato frenetico per realizzarlo in breve tempo. Moduli prefabbricati, reti di protezione, forze di sicurezza a presidio di tutti gli spazi, l’aspetto è quello di un carcere».
Gjader, nel nord dell’Albania, non lontano da Scutari, una campagna che si spopola inesorabilmente, una zona povera dove giovani e famiglie non vedono futuro. È la zona salita agli onori delle cronache italiane da quando ospita il controverso centro per migranti deportati dal governo. Una regione dove il legame con l’Italia consiste principalmente nella emigrazione e nella missione cattolica “Daniel Daiani” fondata nel 1993 da don Antonio Sciarra e portata avanti da don Enzo Zago, nel distretto di Lezhe in una zona pianeggiante chiamata Zadrima Quattro anni fa è arrivato qui don Alberto Galimberti, sacerdote fidei donum della diocesi di Milano, che fino a pochi giorni fa è stato parroco di Blinisht, diocesi di Lapa e da pochi giorni è tornato nella diocesi ambrosiana su indicazione dell’arcivescovo Delpini che ha deciso di consegnare la missione alla Chiesa albanese.
«Non ero mai stato prima in Albania – racconta don Alberto – e ho ereditato la missione. La presenza di preti e suore provenienti in questi villaggi è stata molto importante: ha dato un aiuto concreto a molte famiglie, ha sostenuto la ricostruzione di case e chiese, ha educato i giovani alla vita cristiana e alla testimonianza civile attraverso l’Associazione Ambasciatori di Pace, ha accompagnato la fede delle famiglie, ha dato vita ad opere sociali come cooperative per il vino, l’olio, la ceramica e i saponi. Insomma, è stata segno di speranza».
L’Albania, di fronte alla Puglia, ha una storia di grande sofferenza che non ricordiamo mai. Ben 500 anni di dominazione turca e 45 anni di duro regime comunista l’hanno isolata dal mondo. Nel 1990 il Paese è uscito dal comunismo in condizioni di grande arretratezza ed estrema povertà. Sono seguiti anni di assestamento politico con alcuni periodi di guerra civile. L’apertura al mondo seguita alla caduta del comunismo ha dato inizio all’arrivo di missionari preti, suore, laici per sostenere una rinascita sociale e religiosa e alla costruzione di chiese e di molte strutture comunitarie accompagnata da grande entusiasmo. È iniziato un lento sviluppo sostenuto soprattutto dagli aiuti dall’estero degli emigrati. In questi 30 anni la situazione è migliorata, ma non offre grandi speranze per il futuro. La gente dei villaggi attorno a Gjader vive di agricoltura e allevamento di sussistenza. Quel che basta per mangiare, visto che questa resta una terra di emigrazione. «Si, i villaggi si svuotano sempre più aggiunge don Galimberti – e i giovani raggiungono fratelli, sorelle, cugini all’estero. Alcuni se ne vanno appena terminata la maturità, alcuni anche senza aver terminato gli studi, altri se ne vanno pur avendo lavoro da qualche anno perché i salari bassi, il forte aumento dei prezzi, la mancanza di opportunità e prospettive spingono i giovani a cercare un futuro all’estero. È il pensiero dominante anche nelle famiglie. In Italia vengono a lavorare soprattutto nell’edilizia come muratori, mentre in Germania, che da anni è venuta da queste parti a cercarli e a creare corridoi migratori, vanno a lavorare medici e infermieri».
Ma cosa pensa questa gente del centro per migranti voluto dal governo italiano? «Per la popolazione il centro locale è certamente un’opportunità di lavoro – conclude il sacerdote ambrosiano -. Perché sono richieste varie mansioni con stipendi quasi italiani (dicono dai 1.000 euro in su). In molti hanno fatto domanda di assunzione e alcuni hanno iniziato, per gli altri dipenderà dal flusso di migranti che ci sarà. Eppure ho ascoltato i commenti di alcuni albanesi, migranti pure loro, che guardano con compassione i rifugiati in arrivo e non vedono nulla di buono in questa forma di deportazione e di trattenimento. Pensano davvero che si tratti di in una sorta di carcere».