la Repubblica, 8 novembre 2024
La storia di Pompei riscritta dal Dna
Nulla è come sembra a Pompei. L’antico abitante trovato con un bracciale d’oro al polso e un bimbo in braccio non è come si è sempre raccontato la mamma che fugge con il suo bambino. Gli altri due individui rannicchiati accanto a loro non sono il padre e un fratellino. Né i due corpi abbracciati nella casa del criptoportico appartengono a due sorelle, come si era sempre creduto.L’esame del Dna estratto dalle ossa di 14 calchi di Pompei rivela che in quei momenti di terrore del 79 d.C., con il Vesuvio che eruttava cenere e lapilli, i terremoti che scuotevano la città e i venti di gas torridi che la spazzavano, anche i legami familiari erano esplosi.L’individuo con il bracciale d’oro e il bimbo che portava in braccio sono maschi senza relazione di parentela. Anche i presunti padre e figlio accanto a loro sono privi di legami di famiglia. Delle due presunte sorelle della casa del criptoportico almeno una è in realtà un maschio.Le vesti non sempre di qualità di alcune vittime suggeriscono che alcuni siano – è una supposizione, il Dna non può confermarlo – schiavi rimasti indietro mentre i loro padronifuggivano. «Ci sono storie a Pompei che si tramandano da generazioni, come la madre con il figlio in braccio e le famiglie unite fino alla morte» spiega Valeria Amoretti, responsabile del laboratorio di ricerche applicate del Parco archeologico di Pompei. «Quando i calchi sono stati creati, dal 1863, si sono date interpretazioni in base alla posizione dei corpi e al senso comune. Oggi l’analisi del Dna di alcune vittime dimostra che il senso comune non basta a spiegare quei momenti concitati. Può darsi che un uomo abbia deciso di fuggire portando con sé il suo bracciale prezioso. Vedendo per strada un bambino sconosciuto potrebbe averlo preso in braccio per salvarlo».La rivista Current Biology ieri ha pubblicato il primo test approfondito del Dna degli abitanti di Pompei, in una ricerca condotta anche con l’università di Harvard. «Abbiamo preso in esame 14 calchi da cui sporgevano frammenti di osso, ma solo da 7 abbiamo ricavato materiale genetico sufficiente» spiega David Caramelli, antropologo dell’università di Firenze, esperto di genomi antichi. «I reperti di Pompei non sono certo ben conservati, prima sepolti dall’eruzione e poi ricoperti dal gesso dei calchi. All’inizio ero scetticoche riuscissimo a trovare qualcosa». Due invece sono state le scoperte dell’analisi, che ora sarà estesa anche agli altri calchi. La prima è che le letture tradizionali, basate sulle apparenze, non sono valide. «Siamo in una catastrofe di massa. Dobbiamo immaginare una popolazione in preda al panico» suggerisce Amoretti. La seconda è che Pompei nel primo secolo era un calderone di genomi provenienti da tutte le province dell’impero. «Abbiamo trovato tracce di immigrazioni recenti dal Mediterraneo orientale, ma ci aspettiamo che estendendo l’analisi compaiano anche individui di altre province» spiega Caramelli. «Sapevamo che l’impero era un crogiolo – aggiunge Amoretti – ma la variabilità dei genomi ci ha stupito. Ci saremmo aspettati tanta diversità di Dna a Ostia, il porto di Roma, non in una città di provincia come Pompei».Oltre ai calchi, l’analisi del Dna coinvolgerà anche alcuni scheletri: appartengono agli individui che si sono rifugiati nelle case durante la prima fase dell’eruzione, durata un giorno e mezzo, quando la pioggia di lapilli e pomici ha costretto gli abitanti negli edifici. I cumuli di materiale vulcanico, con il passare delle ore, hanno raggiunto i due o tre metri, intrappolando le persone all’interno, facendo crollare tetti e scale. I continui terremoti hanno contribuito a seppellire i pompeiani sotto alle macerie. «Le scosse quella notte divennero così forti che ogni cosa sembrava non solo tremare, ma addirittura capovolgersi» ricorda Plinio il Giovane, che pure si trovava trenta chilometri più a nord, a Capo Miseno.I sopravvissuti a questa prima fase potrebbero, dopo tante ore, aver tentato la fuga fuori casa. Lì sarebbero stati investiti dalla seconda fase dell’eruzione: una nuvola di cenere caldissima carica di gas ustionanti. Sarebbe stata questa corrente piroclastica a incenerire e asfissiare gli ultimi abitanti di Pompei nel luogo e nella posizione in cui si trovavano. Le ceneri finali dell’eruzione li avrebbero poi ricoperti fin quando, quasi duemila anni dopo, gli archeologi hanno versato il gesso nelle cavità lasciate dei cadaveri, creando il centinaio di calchi che ci impressionano oggi. Vediamo i loro corpi nella posizione in cui la morte li ha colti, ma le loro storie ancora faticano a trovare una forma definitiva.