Corriere della Sera, 8 novembre 2024
Putin scrive a Trump (e all’America)
«È un uomo molto coraggioso. Le cose che ha detto sulla ripresa dei rapporti con la Russia e sulla sua volontà di favorire una soluzione della crisi ucraina sono come minimo degne di attenzione. E approfittando dell’occasione, vorrei congratularmi con lui per l’elezione alla carica di presidente degli Stati Uniti». Tre minuti e 24 secondi di amorosi sensi. Per arrivarci, le persone collegate con l’annuale conferenza al Club Valdai, il più importante forum di discussione moscovita, hanno dovuto attraversare il deserto del consueto soliloquio sul nuovo mondo multipolare. Ma infine ne è valsa la pena.
Vladimir Putin ha rivolto il suo caloroso bentornato a Donald Trump, con parole affatto di circostanza, destinate ad avere un certo peso. Dal febbraio del 2002 a oggi, mai il presidente russo si era espresso in termini così calorosi su un leader del detestato occidente. È quindi il caso di fare una trascrizione quasi letterale delle parole del presidente russo.
«Verso di lui si può avere un atteggiamento diverso. Durante il suo primo mandato, si diceva che fosse soprattutto un uomo d’affari, che ne capiva poco di politica, e che avrebbe potuto commettere tanti errori. Ma in primo luogo, il suo comportamento nel momento dell’attentato alla sua vita, mi ha fatto una forte impressione. Non mi riferisco solo al suo braccio alzato e all’invito a battersi per i loro ideali comuni. Nei momenti di emergenza, un uomo svela la sua essenza. E lui si è mostrato coraggioso». Putin ha poi continuato ad alternare il passato di Trump con il suo futuro, quasi augurandogli o suggerendogli di avere questa volta le mani libere. «Non so se mi ascolterà. Ma ho l’impressione che durante il suo primo mandato l’avessero messo con le spalle al muro. Non lo lasciavano muovere, e lui aveva finito per avere paura, anche di pronunciare una sola parola in più. Non so che cosa avverrà ora. Ma per lui è l’ultimo mandato. Che cosa farà, è affare suo. Penso che le sue frasi sul ripristino dei rapporti con la Russia e sulla soluzione della crisi ucraina, le abbia dette con consapevolezza. Questo è come minimo degno di attenzione». Un giornalista gli ricorda la promessa fatta da Trump di chiamarlo prima dell’insediamento per dirgli Vladimir, incontriamoci. La risposta è una sorta di capovolgimento delle parole appena ascoltate. Come se Putin ci tenesse a mostrare la propria autorità davanti alla platea composta di studiosi giunti quasi tutti da Paesi aderenti al Brics.
«Non troverei vergognoso chiamarlo, da parte mia. Ma non lo faccio, perché i Capi di Stato stranieri prima mi telefonavano quasi ogni settimana, e poi improvvisamente hanno smesso. Ma se qualcuno di loro volesse riprendere i contatti, non abbiamo niente in contrario, come ho sempre detto. E con Trump siamo senz’altro pronti a discutere». Nella sua lunga prolusione iniziale, Putin aveva già lanciato qualche messaggio a Trump, ammiccando alla comune ostilità verso la Nato.
Da un lato, l’abituale gonfiar di muscoli sulla madrepatria e la sua centralità nel nuovo mondo. «La Russia ha fermato più volte coloro che ambivano al dominio mondiale, e continuerà a farlo. Il mondo ha bisogno della Russia. E questo fatto non lo possono certo cambiare le decisioni prese dei capi in carica a Washington o a Bruxelles». Ma dall’altra parte, una stoccata di nuovo conio sull’Alleanza atlantica, che a molti è sembrata un chiaro messaggio a Trump, quasi la definizione di un comune terreno di interessi. «La Nato ha perso la sua ragione d’essere con la fine dell’Unione sovietica: anche gli Usa la consideravano ormai una organizzazione di second’ordine. Per mantenerla in vita servivano nuovi conflitti. Bisognava creare una paura concreta. Bisognava separare la Russia dall’Europa. E così si è arrivati al colpo di Stato in Ucraina e alle ostilità nel Donbass. Ci hanno semplicemente costretti a reagire».
Ma proprio dietro le quinte del Valdai, Sergej Karaganov, l’ex mago del Cremlino, l’uomo che ha ispirato e scritto i discorsi del presidente russo a proposito di Kiev, si è mostrato molto cauto su una eventuale iniziativa negoziale del nuovo presidente Usa. «Al punto in cui siamo ormai arrivati, dopo tutti questi morti, il problema non è il piano di pace, ma quel di cui abbiamo bisogno noi. E a noi serve prima di tutto la capitolazione dell’Ucraina e la sua completa demilitarizzazione. Dopo, potremo anche firmare un trattato di pace con l’Europa». Anche seguendo il filo della rinascente amicizia Putin-Trump, la strada per la fine delle ostilità sarà lunga e tortuosa.