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 2024  novembre 07 Giovedì calendario

La somalo-americana che ha votato Donald

A. è mia cugina. Siamo legate da una Somalia in cui lei è nata e io no, ma che ci portiamo entrambe addosso nelle ossa, nella nostra pelle nera, nell’Islam e nell’amore incondizionato per i sanbusi, i piccoli fagottini fritti di pasta sfoglia pieni di verdure, cipolle e carne macinata. Soomaali baan ahay siamo somale, così comincia anche un romanzo famoso di Cristina Ali Farah, ma non siamo solo somale. Io sono italiana e lei è statunitense, esattamente lei è della Virginia, io di Roma. Scherzando dico sempre che vive dietro il Pentagono. L’ultima volta che ci siamo viste mi ha parlato di Donald Trump e di quanto lo ama. È un uomo con dei valori, mi ha detto. A. non è l’unica parente che ho che apprezza Donald Trump. Negli Usa, dove una parte della diaspora famigliare è finita a vivere, da Washington State al Texas, passando per Minnesota e Virginia appunto, Trump piace. Di lui piacciono i valori cristiani, mi hanno detto. Ma siete musulmani, ho replicato. E mi hanno risposto che almeno lui un Dio ce l’ha e questo è importante. E poi, mi ha detto qualcun altro, non farà guerre. Ne siete proprio sicuri? Ribatto. Non lo sanno. Lo sperano. Sono stanchi della pioggia di droni che si è abbattuta sul Sud globale e nel paese di origine negli ultimi anni. Qualcuno invece mi indica un punto nel cielo, guarda Gaza! E lì dei democratici convinti mi confessano che il massacro in corso ha segnato un divorzio tra loro e i piani alti del partito. Non lo credevo possibile, sussurrano. E quindi si è votato Trump, o per rendere la scelta meno amara, Jill Stein. Altri invece semplicemente sono stanchi, «ci trattano come l’ultima ruota del carro, almeno lui ci ascolta».Poi c’è il resto l’inflazione, la paura dei prezzi al supermercato, il lavoro che va a singhiozzo. Costa tutto troppo. Si lamentano. «Cosa ci servono le parole di Beyoncé se costa tutto troppo?». Questo è solo un campionario di frasi che da anni, mesi, settimane, sento dall’America. E da qui che capisco, nel mio piccolo, quante frustrazioni si sono incistate in un voto solo. Non solo da parte di membri famigliari che vedo nelle loro vacanze estive a Roma o in fugaci scambi telefonici. Ma da parte di un Paese intero. Se una lezione i progressisti, non solo gli statunitensi, ma tutti, dovranno trarre da questa sonora sconfitta elettorale sarà quella di non considerare scontate le minoranze e i loro bisogni. E invece già dalle prime avvisaglie vedo la solita politica dei capri espiatori: è colpa dei maschi neri, no è colpa dei musulmani, no è colpa delle donne bianche. A che serve incolpare qualcuno del proprio mancato ascolto? Incolpare qualcuno perché si è scelto il centro invece della sinistra? Il silenzio invece dei diritti umani? I miei parenti, la percentuale non irrisoria che ha votato Donald Trump, non sono ignoranti da biasimare. Ma persone da ascoltare. Chi li ha ascoltati? Temo nessuno. Ora non ho il coraggio di chiamare A., ma la penso. E mi viene alla mente una foto che lei mi aveva fatto vedere tanto tempo fa, un Trump giovane, tra Rosa Parks e Mohammed Ali. Non sembra uno di noi? Mi aveva detto felice in quell’occasione. Ho dimenticato questo episodio fino a ieri sera. Se un giorno ci sarà un vero progressismo (ora non c’è) dovrà forse reimparare a parlare con persone come lei. Persone che vogliono solo essere felici. Essere ascoltate.