la Repubblica, 7 novembre 2024
Basaglia nel ricordo di una sua collaboratrice
«A noi ragazzi che arrivavamo dal Sessantotto, carichi di rabbia nei confronti delle ingiustizie, Franco Basaglia regalò un progetto concreto di cambiamento. Seppe convogliare quella nostra inquietudine a volte distruttiva – quanti di noi si sono persi? – in una pratica collettiva tesa alla giustizia sociale, al rispetto dei più deboli, alla solidarietà, alla sorellanza. Eravamo tutti giovani appena laureati ma ci diede fiducia, permettendoci così di guardare al futuro con speranza».
Giovanna Del Giudice è una delle “ragazze” del gruppo triestino, quello che chiuse i manicomi avviando una rivoluzione culturale non soltanto nella psichiatria ma anche nelle scienze sociali, nel welfare, nella cura delladisabilità. Aveva 24 anni quando nel 1971 incontrò Basaglia la prima volta. Una delle poche sue allieve donne, per oltre quarant’anni impegnata nella veste di “primaria” nella piena realizzazione della legge 180, applicata in Italia a macchia di leopardo. Ed è con lei che tracciamo il bilancio di un anniversario sfaccettato, che sta per chiudersi con un grande convegno organizzato dall’Archivio Basaglia a Venezia. Perché il centenario ha evidenziato un paese schizofrenico: da una parte un’esplosione di iniziative in tutta la penisola dedicate a una figura e a un pensiero ancora molto attuali, bussola anche per chi si occupa di carcere o migranti; dall’altra una politica governativa che cammina ostinatamente in direzione contraria, rovesciando il paradigma culturale fondativo non solo della legge 180 ma di una visione del mondo che mette al centro la persona e i suoi diritti.
«L’effervescenza delle iniziative in nome di Basaglia è andata anche al di là delle nostre aspettative, mostrandoci la sua presenza ovunque nel mondo delle associazioni e di chi porta avanti pratiche innovative», dice Del Giudice, presidente della Conferenza permanente per la salute mentale nel mondo Franco Basaglia. «Ma questo accade in un momento di regressione politica e istituzionale drammatico, segnato da una grave involuzione culturale e dal ritorno di gravi pregiudizi nei confronti dei soggetti più fragili».
Questa estate Fratelli d’Italia ha presentato un disegno di legge che rovescia radicalmente l’impianto della legge 180 voluta da Basaglia.
«Questo disegno di legge ripropone l’equivalenza tra malattia mentale e pericolosità sociale, chiamando di nuovo in campo per la gestione delle persone con sofferenza mentale i ministeri dell’Interno e della Giustizia. Il paragone può sembrare forte, ma siamo tornati indietro di oltre un secolo, a quella legge del 1904 che sanciva la persona con malattia mentale come socialmente pericolosa. Della 180 nel nuovo testo permane la rete di servizi territoriali, ma viene rovesciata la cultura che sostiene l’agire terapeutico: al centro non è più la persona ma la sua malattia, con una prevalenza dei luoghi di contenzione su quelli del recupero. Il matto non viene più salvato dal suo destino di emarginato. D’altra parte questo è lo stesso paradigma culturale che innerva le politiche della destra sui migranti: il diverso è un nemico da cui difendersi erigendo muri e fili spinati».
Nella cura della malattie mentali prevalgono oggi metodi che Basaglia aveva contestato e abolito. Possiamo dire che sono tornati i manicomi?
«Sì, sono tornati l’istituzionalizzazione e l’abbandono. E quindi sono tornati i manicomi, in una forma diversa rispetto a quelli che abbiamo abbattuto quarant’anni fa. I luoghi del contenimento hanno un’apparenza più dignitosa, ma restano luoghi chiusi dove le persone vivono una vita senza futuro, spesso costrette a subire una sorta di infantilizzazione. Mi riferisco alla gran parte delle strutture residenziali, delle cosiddette comunità terapeutiche, dei Servizi psichiatrici ospedalieri di Diagnosi e Cura, delle cliniche psichiatricheprivate che prosperano in alcune regioni. Ma il manicomio è tornato anche nell’abbandono dei malati nelle case, per strada, nelle carceri».
Oggi si lega più di prima?
«A dire il vero la contenzione in Italia non è stata mai abolita del tutto. Non abbiamo evidenza del numero delle contenzioni nei servizi della psichiatria. Ma se fino a qualche tempo fa un numero pur minoritario di servizi ha lungamente mostrato che era possibile farsi carico della persona in crisi senza ricorrere a fasce e cinture, oggi questa cifra sta diminuendo: sono solo una quindicina i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura dove non si lega».
Nella recente giornata dedicata alla salute mentale, la presidente del Consiglio Meloni ha dichiarato di essere vicina ai malati psichiatrici e ai loro famigliari. V’è traccia di questa vicinanza nella legge finanziaria?
«Nella nuova legge di bilancio, che non parla specificamente di salute mentale, non abbiamo trovato niente di significativo. Nel decreto legge sulle liste d’attesa del luglio scorso si prevede per il 2025 l’assunzione di 44 medici psichiatrici, 36 neuropsichiatri infantili, 34 psicologi, un centinaio tra educatori, assistenti sociali, tecnici: queste assunzioni riguardano circa 200 dipartimenti di salute mentale italiani. Un numero ridicolo, soprattutto se messo a confronto con la carenza di operatori, il 25% in meno di quanto previsto dalla programmazione nazionale. Non dimentichiamo poi la fuga degli operatori dalla sanità pubblica: un fenomeno di cui si parla troppo poco. Nei servizi manca spesso un progetto, e quindi una speranza. Non c’è più passione, restano soltanto fatica e responsabilità».
Lei prima raccontava che la speranza nel futuro ve la regalò Basaglia.
«Sì, eravamo sessantottini arrabbiati e in qualche caso colpiti dall’ingiustizia sociale. Basaglia fu capace di tradurre il nostro malessere in un progetto che cambiava un pezzo di mondo e noi stessi, restituendoci speranza».
Lei l’ha frequentato a lungo. Un tratto del suo carattere rimasto in ombra?
«È stato un rivoluzionario, ma privo di quelle certezze granitiche che caratterizzano alcune figure di leader. Aveva centomila tic che eranola manifestazione plastica delle sue inquietudini. Non esistevano con lui verità assolute: di ogni questione ci mostrava un lato e il suo contrario. E questo era difficile da sopportare, ma allo stesso tempo ci ha fatto crescere, determinando processi di autonomia che raramente un maestro sollecita».
Era esigente?
«Nel primo anno di lavoro, alle 7 e mezza del mattino, c’era un appuntamento fisso nel suo studio dove venivamo interrogati sulla psichiatria tradizionale: si poteva mettere in discussione solo ciò che si conosceva. Era rigoroso ma anche profondamente umano, capace di mostrarsi in situazioni di debolezza. Ricordo ancora le sue crisi d’asma.Credo che volesse farci capire che la malattia, come la salute, riguarda ognuno di noi, indistintamente».
Oggi Basaglia è presente all’Università?
«No. Basaglia fu cacciato dall’accademia per ben quattro volte, non era organico, e questa estraneità è durata fino a oggi. Alla facoltà di Medicina, nelle scuole di specializzazione in Psichiatria, tranne rare eccezioni non si parla di lui né della legge 180. La formazione degli specializzandi è principalmente biomedica: ignorano per larga parte che cosa sia il lavoro di salute mentale di comunità».
Alcuni obiettano: Basaglia poté rivoluzionare la cura della salute mentale perché radicalmente diverso era il contesto politico e sociale degli anni Settanta, oggi è più difficile.
«Mi sembra una scusa per rassegnarsi a non fare nulla. Ho lavorato nei servizi pubblici di psichiatria fino al 2009 e posso testimoniare che la proposta di un lavoro collettivo, con un continuo confronto oltre i recinti delle singole competenze, riesce a costruire adesione al lavoro, speranza e desiderio di cambiamento. Se gli operatori stanno bene, lavorano meglio e vive meglio chi beneficia delle loro cure. Io non ho mai smesso di crederci».