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 2024  novembre 06 Mercoledì calendario

Intervista a Christian De Sica. Parla di suo padre

Cinquant’anni senza Vittorio De Sica. Il grande attore e regista se ne andava il 13 novembre 1974 a Neuilly-sur-Seine, il sobborgo chic di Parigi, ad appena 73 anni e dopo aver lasciato un segno indelebile nella storia del cinema. Tra i padri del neorealismo, maestro della commedia, sempre pronto a mettere in primo piano l’umanità delle storie e dei personaggi, lanciò Sophia Loren (L’oro di Napoli, La Ciociara, Matrimonio all’italiana) e vinse quattro Oscar grazie a capolavori come Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), Ieri, oggi e domani (1963), Il giardino dei Finzi Contini (1970). Ingmar Bergman considerava il suo Umberto D. il miglior film mai girato. Maestri come Orson Welles, Martin Scorsese e Wes Anderson non hanno mai smesso di ringraziarlo per averli ispirati. Vittorio ha dato origine a una dinastia di spettacolo: la prima figlia Emi faceva l’agente, il secondogenito Manuel era musicista, è un attore ultra-popolare il terzo figlio Christian, sono registi i nipoti Andrea e Brando. E nel cinquantennale della morte, è Christian a rendere omaggio al padre tra amore filiale e retroscena cinematografici.
Oggi è ricordato come si deve o l’Italia ha la memoria corta?
«Ho appena partecipato all’inaugurazione della mostra “Tutti De Sica” organizzata dalla Cineteca di Bologna. Ma il nostro Paese dimentica facilmente i maestri. Mi è capitato di lavorare con dei giovani che non conoscevano Vittorio, sapevano solo che era mio padre. Ed è stato cancellato il premio a lui intitolato con la scusa che costava troppo».
Cosa direbbe Vittorio del cinema di oggi?
«Sarebbe contento di assistere all’affermazione di tanti attori giovani e bravissimi come i protagonisti di Fino alla fine, il film di Gabriele Muccino».
Al di là del mestiere, qual è la lezione più importante che suo padre le ha dato?
«Mi raccomandava di non alzare la testa. Il cinema, ripeteva, è un lavoro collettivo in cui non esistono leader. Bisogna essere disponibili con tutti».
Secondo lei, qual è stato il segreto che l’ha portato ad essere, con Federico Fellini, il cineasta italiano più amato e premiato nel mondo?
«La pietas che caratterizzava tutti i suoi film, quella bontà capace di arrivare al cuore dello spettatore».
È stata sempre capita la grandezza di Vittorio?
«Tutt’altro. È stato stroncato dalla critica e incompreso dai produttori. Dopo aver vinto l’Oscar per Sciuscià, venne chiamato a Los Angeles dal mitico Howard Hughes. Ma il magnate si dimenticò di lui, così papà iniziò a proporre Ladri di biciclette agli altri. David O. Selznick voleva imporgli Cary Grant, Charlie Chaplin gli disse: «È troppo presto per te» e lo invitò a tornare in Italia».
E Vittorio ha fatto bene a dargli retta?
«Sì: ebbe i soldi da Cesare Cicogna, il padre di Marina. Ma quando Ladri di biciclette uscì, al Barberini di Roma, la gente lo insultava e strappava i manifesti. Poi lo storico del cinema Mario Verdone, padre di Carlo e di mia moglie Silvia, organizzò una proiezione a Parigi per giganti come Cocteau, Gide, Clair e finalmente si parlò di capolavoro».
Suo padre soffriva per le stroncature?
«Sì, gli dispiaceva non essere capito. Ma più gli davano addosso, più lui vinceva gli Oscar».
Quale, tra i suoi film, amava di più?
«Umberto D., il più duro di tutti. Il produttore Angelo Rizzoli voleva che Vittorio fosse anche il protagonista nei panni dello scostante professore deciso a suicidarsi. Ma papà, che sapeva di essere simpatico al pubblico, si rifiutò. Scritturò invece il docente universitario Carlo Battisti e Rizzoli lo accusò di avergli dato una pugnalata. Vittorio ha sempre lottato per fare il suo cinema».
E ha mai litigato con qualcuno?
«Nemmeno una volta. Apparteneva alla stessa scuola di pensiero di Alberto Sordi: abbraccia tutti, anche se ti insultano fai finta di niente, arrabbiarsi non servire».
E lei è sempre dell’idea di fare il remake di “La porta del cielo”, il film diretto da suo padre nel 1945?
«Dopo vent’anni di tentativi, ho trovato i produttori: Pierluigi Verga e Edoardo De Angelis. Io farò la regia, non vedo l’ora».
Un suo ricordo indelebile di Vittorio?
«A 21 anni debuttai con uno spettacolo in cui cantavo e ballavo a Montecarlo, davanti a spettatori come il principe Ranieri, Grace Kelly, Gene Kelly, oltre a mio padre e mia madre. Tremavo ma alla fine venne giù il teatro dagli applausi. E papà esclamò: “Posso morire tranquillo, lo sai fare”. Poi, il giorno dopo, ci fu un imprevisto».
Quale?
«Vittorio perse tutto al Casinò, così io gli prestai le 250mila lire guadagnate con lo spettacolo. E lui tornò tutto felice a giocare. Se ci penso, m’intenerisco ancora».
Gloria Satta