La Stampa, 6 novembre 2024
Il solitari che fanno cominità
«Solitaire et solidaire»: così Catherine Camus intitola, nel 2009, il libro dedicato al grande scrittore franco-algerino Albert, suo padre. Così – con quest’espressione tanto sintetica quanto efficace – ci pare di poter descrivere il tipo umano che Franco Marcoaldi delinea con limpidezza e originalità nel suo ultimo saggio I cani sciolti. Comunità di solitari (Einaudi, 2024), una vera e propria guida su come essere e come mantenersi, per l’appunto, «solitari e solidali».
Ad accendere l’interesse di Marcoaldi è un fenomeno insieme luminoso e segreto: l’esistenza e la persistenza nella nostra storia di una «comunità paradossale», la comunità dei soli, di coloro che hanno deciso di prendere altre strade, di allontanarsi dalla scena del mondo, senza però smettere di essere in contatto con esso. Sì, un paradosso. E ciò nondimeno una scelta verso cui, nel tempo, si sono orientati molti uomini e donne, nient’affatto disinteressati alle sorti dei propri consimili. Tutt’altro.
La galleria dispiegata fra le pagine dell’agile e penetrante libretto è ampia: da Ralph Waldo Emerson a David Henry Thoreau, da Aleksandr Herzen a Isaiah Berlin, da Simone Weil a Albert Camus, da Virginia Woolf a Anna Maria Ortese, senza dimenticare il cane sciolto per antonomasia della letteratura italiana, Gianni Celati. Ma chi sono i cani sciolti?
Per Marcoaldi, cane sciolto è colui o colei che diserta, che «si chiama fuori», che «non fa banda», e non certo per menefreghismo, individualismo o solipsismo, né perché vuole «sottrarsi alla Storia con la maiuscola», semmai perché intende – e sono parole di Camus queste – «preservare dalla Storia quella parte dell’essere umano che non le appartiene». Salvare qualcosa per sé, proteggere le proprie idee, non finire negli ingranaggi del potere. Esercitare il proprio diritto di scelta, invece di rassegnarsi a essere sempre e solo scelti per aderire a modelli, aspirazioni e pratiche lontane – quando non in netto contrasto – coi propri ideali e desideri, con la propria storia incarnata.
Si prenda la cagna sciolta Virginia Woolf, che nel giugno del 1938, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, pubblica Le tre ghinee, illuminante pamphlet femminista in cui l’autrice non ha paura di puntare il dito contro i propri connazionali uomini che si scagliano contro la barbarie nazista e fascista e non si accorgono di essere, essi stessi, portatori del medesimo germe che anima quelle dittature. Patriarcali e maschilisti, i tanto illuminati inglesi – sostiene Woolf – non sono poi così diversi dai bersagli delle loro accuse. Il libro, naturalmente, non piace a molti, ai critici come agli amici. Non piace all’economista John Maynard Keynes, allo scrittore E. M. Forster, perfino al marito Leonard e all’amata Vita Sackville-West. Nessuno di loro sembra (voler) capire il nesso fra totalitarismi e società patriarcale. A nessuno pare sensata la proposta che Woolf fa alle sue connazionali, ovvero quella di fondare una Society of Outsiders, una società di donne che si chiamano fuori non solo dalla guerra, ma da ciò che ne è alla radice: i meccanismi che alimentano le disuguaglianze fra i sessi, le logiche di potere maschili, perfino l’idea stessa di patria, che Woolf rifiuta dichiarandosi cittadina del mondo.
In effetti, fra i cani sciolti raccontati da Marcoaldi, sono molti quelli che rifiutano il concetto di patria, tutte le volte che questo viene impugnato per portare avanti retoriche stantie e appiattimenti identitari. Se amare e difendere la patria significa immolare le coscienze dei singoli, le loro storie individuali, in favore di un unico corpo di valori e tradizioni, i cani sciolti non ci stanno. Non ci sta il cittadino del mondo Gianni Celati, che nelle sue infinite peregrinazioni tra Italia, Tunisia, Normandia, Senegal, Inghilterra, rifiuta ogni appartenenza e stanzialità in favore di un’esistenza nomade, libera da giochi e gioghi di potere, convinto che la «patria ultima dell’uomo» sia «l’interiorità». Non ci sta Anna Maria Ortese che in tutte le sue opere, come ricorda Marcoaldi, non fa che reclamare, ben prima dell’avvento dell’ecocritica, «il diritto del vivente, di ogni vivente, ad avere il suo legittimo spazio nella grande casa del corpo celeste» e che in un’intervista del 1997 arriva a dire: «Ecco la mia idea di patria: lo sguardo mite e interrogante della tartarughina del Levante, lo sguardo calmo degli Ultimi. Ho lì la mia casa, i miei inni, le memorie».
Non ci sta Marcoaldi stesso, che ritiratosi dalla città molti anni fa, fa vita di boschi e di laguna, ben consapevole che la wilderness dell’amato trascendentalista americano Thoreau è un mito lontano, inapplicabile al presente, eppure convinto che attraversare i luoghi in cui è ancora la Natura a comandare a pieno titolo (o quasi) sia esercizio fondamentale per rimettere in prospettiva le cose e ossigenare il pensiero, proteggendolo dalla violenza quotidiana, dal chiasso delle opinioni e delle performance culturali. Da quella «nube di parole» in cui, secondo Celati, perfino «l’esperienza più intima» finisce per essere «assorbita dai cliché con cui se ne parla, abolita o svuotata dalle chiacchiere d’attualità».
Non si tratta di uscire dal mondo ma di fermarsi a pensarlo, il mondo. Senza lasciarsi ricattare dalla paura dell’isolamento, dall’idea che «se non fai parte di un gruppo, una cordata, una combriccola, una tribú, una banda, non conti niente».
Da soli, da sole, in pensiero per il mondo, potremo scoprire con sorpresa ed emozione che altre e altri sono stati e sono “in pensiero” come noi. Pronti a disobbedire alle logiche delle tribù e delle appartenenze, sensibili «alle sorti di ogni creatura».
È questa la comunità dei solitari-solidali: la mappa «puntiforme, reticolare» che Marcoaldi traccia per noi, una «costellazione cangiante» piena «di promesse e visioni» a cui è indispensabile ricominciare ad allenare lo sguardo. Per sentirci meno soli nelle solitudini che ci scegliamo, quando vogliamo ascoltare con più coraggio, con più verità, noi stessi. E dunque il mondo. —