Corriere della Sera, 6 novembre 2024
Rutte a palazzo Chigi e la premier promette nuove armi per Kiev
ROMA – Arriva nella Capitale mentre le urne americane si stanno per aprire. Ed entra a palazzo Chigi nelle ore in cui l’Europa attende e trema, temendo l’avvento di Donald Trump. Mark Rutte si presenta davanti a Giorgia Meloni per la prima volta da quando è ufficialmente alla guida la Nato, nel momento più delicato del conflitto in Ucraina. E porta una domanda secca.
La stessa che sta ponendo in tutte le cancellerie del continente con chiarezza e senza girarci attorno: «Intendete sostenere Kiev anche se dovesse vincere il leader repubblicano?». La risposta di Giorgia Meloni è netta, riferiscono: «Non cambieremo la nostra linea di supporto all’Ucraina, chiunque entri alla Casa Bianca». Lo dice al segretario generale dell’alleanza atlantica, lo dice soprattutto affinché Matteo Salvini intenda. E infatti, l’esecutivo studia in queste ore un’accelerazione su un dossier molto sensibile: quello degli armamenti da inviare a Volodymyr Zelensky. L’idea – anticipata a Rutte – è quella di approvare e spedire il decimo pacchetti di aiuti entro la fine di dicembre. Non a caso prima dell’eventuale insediamento di Trump.
La questione ucraina è lo snodo della politica estera dell’esecutivo. O meglio: la faglia più preoccupante che spacca la destra. Meloni, in queste ore, vive l’imbarazzo di chi potrebbe ritrovarsi molto presto imbrigliata tra due linee divergenti: da una parte l’eventuale disimpegno di Washington, in caso di vittoria di Trump, dall’altra la necessità europea di provare a mostrarsi al fianco di Kiev anche di fronte a un disimpegno americano.
Le avvisaglie del problema incombente sono già evidenti in queste ore, quando ancora neanche si conosce l’esito del voto negli Stati Uniti: «Per me se vince Trump è una buona notizia, perché quando governano i repubblicani scoppiano meno guerre nel mondo – dice il segretario leghista, mettendo pressione su Palazzo Chigi – E non è un mistero il fatto che nel nome della pace la mia speranza sia di una vittoria repubblicana». Gli domandano: la pensa così anche Meloni? «Io parlo a nome mio».
Fosse solo Salvini, poi. Meloni ha un altro enorme problema da affrontare con Rutte: le spese militari. L’impegno dei membri Nato, è cosa risaputa, è di toccare quota 2 per cento nel rapporto con il Pil. Sono numeri che dipendono anche dalla crescita di un Paese, dunque. E infatti, secondo le stime dei mesi scorsi, nell’anno che arriva la cifra assoluta è in crescita, mentre la percentuale è in calo: dall’1,53 per cento all’ 1,49. Vincesse Trump, inizierebbe un pressing totale su palazzo Chigi per aprire i cordoni della borsa: all’appello mancano tra i dieci e gli undici miliardi all’anno, che è quanto vale lo 0,5 per cento del Pil.
È un’altra buona ragione che spinge Meloni, pure segretamente, a tifare per Kamala Harris. Alle presecon casse vuote, la premier non può che ribadire al segretario generale dell’alleanza che la traiettoria è comunque in crescita, tendente al 2 per cento. Ma il percorso non potrà che essere progressivo, per ragioni di bilancio.
In realtà, Roma tiene nel cassetto un primo segnale, da offrire alla Casa Bianca se dovesse vincere Trump: un aumento immediato di 1-2 miliardi per il prossimo anno (non si capisce se giocando tra le pieghe contabili, sfruttando le stime al ribasso del Pil, o mobilitando risorse aggiuntive).
Certo è che nell’incontro di palazzo Chigi non si sblocca ancora l’altra richiesta italiana, quella di ottenere un responsabile del fronte Sud della Nato: Jens Stoltenberg, con ilconsenso di Joe Biden, ha affidato a luglio agli spagnoli quel ruolo. Roma ha sofferto e lamentato un’ingiustizia. Ora insiste per ottenere un risarcimento. Ma non sembra certo scontato che Rutte ci ripensi.